Per Vladimir Majakovskij

Il 30 novembre 1912, al caffè-cabaret pietroburghese “Cane randagio”, si esibiva per la prima volta il ventiduenne Vladimir Majakovskij. Con chi a vent’anni non ha recitato a memoria, come sonnambulo, camminando, una delle sue poesie,  – non vale la pena parlare di letteratura.

Le traduzioni delle liriche che seguono sono di Guido Carpi, Alessandra Carbone, Giuseppina Larocca, Cinzia Cadamagnani, Giulia Marcucci. Sono tutte pubblicate in: Vladimir Majakovskij, Poesie (a cura di G. Carpi), BUR 2008.

Notte

Il porpora e bianco è buttato, gualcito,
sul verde gettavano ducati a cataste,
e ai neri palmi di accorse finestre
ardenti carte gialle distribuirono.
Ai viali e alle piazze non pareva strano
Vedere edifici togati d’azzurro.
A chi primo correva, come gialle ferite,
i fuochi si fidanzavano con bracciali alle gambe.
La folla – gatta svelta screziata di pelo –
Nuotava, chinandosi, attratta da porte;
ognuno voleva trascinare per un po’
la mole del ridere fuso in un grumo.
Sentendo le zampe di un vestito chiamarmi,
ficcai loro negli occhi un sorriso; spavento
facevano i mori battendo lamiere e ridendo,
la fronte fiorita d’un’ala di pappagallo.

Da una strada all’altra

Stra-
Da.
Visi
si hanno
i cani
degli anni
più niti-
di.
Attra-
verso
ferrigni cavalli
dalle finestre di case in fuga
saltarono giù i primi cubi.
Cigni dei colli dei campanili,
curvatevi nei cappi dei cavi!
È pronto nel cielo un disegno giraffesco
a screziare ciuffi arrugginiti.
Screziato come una trota,
figlio
di un campo arato senza cornice.
Un prestigiatore
i binari
estrae dalle fauci del tram,
celato dai quadranti della torre.
Ci han conquistato!
Bagni.
Docce.
Ascensori.
Hanno slacciato il corsetto dell’anima.
Mani ustionano il corpo.
Che tu gridi o che no:
“Io non volevo!” –
Aspro
è il laccio emostatico
del tormento.
Il vento pungente
Al comignolo
Strappa
Un ciuffo di lana fumante.
Calvo, un fanale
Con libidine sfila
da una strada
la calza nera.

Mattino

Torva la pioggia guardò di traverso.
E oltre
la grata
dell’esatto pensiero metallico dei cavi –
una trapunta.
E su
lei
delle stelle sorgenti
leggeri calcarono i piedi.
Ma l’ago-
nia dei lampioni,
zar
in corone a gas,
all’occhio
fa più doloroso
il bellicoso bouquet di prostitute da viale.
E bieco
è degli scherzi
il riso a colpi di becco –
da gialle
rose venefiche
è sorto
a zigzag.
Oltre il baccano
e l’orrore
gettare un’occhiata
all’occhio è gradito:
lo schiavo
di croci
dolentemente-con calma-indifferenti,
le tombe
delle case
di tolleranza
l’oriente ha buttato in un unico vaso ardente.

Noi

Strisciamo alla terra sotto ciglia di palme sgattaiolate
fuori, a trafiggere gli occhi biancastri dei deserti,
sulle labbra inaridite dei canali –
ad afferrare i sorrisi delle corazzate.
Raggelati, ira!
Sul falò di incendiate costellazioni
non sia mai che si tragga mia madre, decrepita e tornata selvaggia.
Strada – corno d’inferno – inebria il russar di autocarri!
Dilata d’ebbrezza narici di vulcani fumanti!
Le penne degli angeli in muta getterem sui cappelli delle amate,
per farne boa, taglieremo le code a comete verso il largo arrancanti.

Stradale

In tende, dov’è il fiorire di smorti sembianti,
da bancarelle ferite stillava mortella,
e attraversandomi, sull’aringa lunare
cavalcava una lettera verniciata.
Pianto i tonanti pali del passo,
sgrano rullii sui tamburelli delle strade.
Tram estenuati dal girovagare
hanno incrociato le fulgide lance.
Levata in alto la mano con l’unico occhio,
la piazza a sghimbescio sgattaiolava vicina.
Guardava il cielo nel bianco gas
con viso senz’occhi di basilisco.

Ecco che mi feci cane

Insomma, è assolutamente insopportabile!

Sono tutto morsi di rancore.

E mi infurio, non come fareste voi:

come un cane con la faccia della luna calva

me la prendo

e me la ululo tutta.

Devono essere i nervi…

Esco

vado un po’ in giro.

E per strada nessuno riesce a farmi sfogare.

Una tizia mi urla qualcosa tipo un buonasera.

Bisogna rispondere:

è una conoscente.

Lo desidero.

Sento che –

non mi viene come a un uomo.

Ma che cavolo succede!

E che, sto dormendo?

Mi tasto un po’

sono lo stesso di prima,

la faccia è quello a cui sono abituato.

Mi tocco il labbro,

ma sotto le labbra

ho una zanna.

Subito nascondo il viso, come per soffiarmi il naso.

Mi precipito a casa, a gambe levate

Aggiro con cura il posto di polizia,

ma all’improvviso assordante:

“Guardie!

Una coda!”

Mi tocco e rimango di sasso!

Una roba così

batte qualsiasi zanna,

non avevo notato nella mia fuga disperata:

da sotto la giacca

sventaglia un codone

e sbatte dietro,

grosso, da cane.

E ora?

Un tizio si mette a urlare, radunando folla

Ad un secondo si aggiunge un terzo, poi un quarto.

Calpestano una vecchietta.

Quella, segnandosi, grida qualcosa sul diavolo.

E quando, sulla faccia arricciati i baffi-scopette,

la folla mi si gettò addosso

enorme,

malvagia,

io mi misi a quattro zampe

e abbaiai:

Bau ! bau! bau!

(1915)

Ehi! (32)

Umida, come l’avessero leccata,

la folla.

L’aria rancida puzza di muffa.

Ehi!

Russia,

che non ce l’hai

qualcosa di più nuovo?

Beato chi almeno una volta

potè, pur solo a occhi chiusi,

dimenticarvi,

inutili come un raffreddore,

e sobri,

come gazzosa.

Siete così noiosi, come

se al mondo non esistesse Capri.

Ma Capri c’è.

Di sfavillìo di fiori

Isola tutta, come una donna con un cappellino rosa.

Spingiamo i treni alla costa, e la costa

dimentichiamo, dondolando il corpo sui piroscafi.

Scopriremo decine d’Americhe.

Culleremo l’ozio in poli sconosciuti.

Guarda come sei abile,

mentre io,

guarda la mia mano rozza com’è.

Forse nei tornei,

forse nei duelli,

sarei stato il migliore degli spadaccini.

Com’è bello, dopo un colpo ben assestato,

stare a guardarlo, come va a gambe all’aria.

Ed ecco, il nemico, dove sono gli avi,

là,

l’ha mandato la logica della spada.

E dopo, nel fuoco delle sale indorate,

dimenticata l’abitudine del sonno,

passare tutta la notte in piedi,

gli occhi,

affondati nel cognac occhiogiallo.

E alla fine ispido, come un riccio,

tornandomene a casa all’alba sbronzo,

minacciare l’amata infedele: t’ammazzo!

In mare getterò la tua carogna!

Strappiamo ‘ste giacche e polsini del cavolo

sulle pettorine inamidate dipingiamo una corazza,

curviamo il manico del coltello da cucina,

e siamo tutti, almeno per un giorno, spagnoli.

Chè tutti, scordata la propria nordica ragione,

si amino, si azzuffino, si agitino.

Ehi!

Oh Uomo,

la terra stessa

invita al valzer!

Prendi, e vai a ricamare il cielo di nuovo,

inventa nuove stelle e là mettile in mostra

ché, graffiando frenetiche i tetti,

al cielo si arrampichino le anime degli artisti.

(1916)

Lilička (34)

Invece di una lettera

Il fumo del tabacco divora l’aria.

La stanza

è un capitolo del Kručënico inferno.

Ricorda

a questa finestra

per la prima volta

frenetico, ti accarezzai le mani.

Oggi te ne stai lì

Il cuore nel ferro.

Un giorno ancora

e mi caccerai,

insultandomi, forse.

Nell’anticamera fosca a lungo non scivola

rotta dal tremito la mano nella manica.

Fuggirò via,

Il corpo getterò in strada.

Selvaggio,

impazzirò,

troncato dalla disperazione.

No, non ce n’è bisogno,

cara,

buona,

dài facciamo pace, ora.

E’ lo stesso

Amore mio;

un fardello grande infatti

peserà su di te

ovunque andrai.

Lascia ruggire in un ultimo grido

l’amarezza dei lamenti offesi.

Se a fatica si riesce ad uccidere il toro

lui andrà via,

ad accasciarsi nelle fredde acque.

Ma, oltre al tuo amore

io

non ho mare,

e dal tuo amore neanche col pianto ottieni tregua.

Se vuole quiete lo stanco elefante

regale, si sdraia sulla sabbia infuocata.

Ma, oltre al tuo amore

io

non ho sole,

eppure non so, dove sei e con chi.

Se tu avessi tormentato così un poeta,

lui

l’amata avrebbe venduto per soldi e gloria,

ma io

non ho caro altro suono

che il suono del tuo nome amato.

E non mi getterò sui binari,

non berrò veleno,

né potrò premere il grilletto sulla tempia.

Su me

oltre al tuo sguardo

non ha potere alcuna lama di coltello.

Domani dimenticherai

che ti ho fatto regina

che l’anima florida incendiai d’amore,

e il carnevale polveroso dei giorni vani

sgualcirà le pagine dei miei poveri libri…

Le foglie secche delle mie parole

sapranno convincerti a restare,

coi loro avidi respiri?

Ma fa’ che

con un’ ultima dolcezza

io rivesta il tuo passo che se ne va.

26 maggio 1916, Pietrogrado.

 

NON CAPISCONO NULLA

Entrai dal barbiere, chiesi tranquillo:

“fatemi il piacere, pettinatemi le orecchie”.

Il liscio barbiere d’un tratto si fece irto come un porcospino,

il suo viso si allungò come una pera.

“Pazzo!

Suonato!”,

si misero a saltellare le parole.

Le offese rimbalzavano di stridio in stridio,

e a lu-u-u-u-ngo

ridacchiò la testa di un tizio,

sradicandosi dalla folla, come un ravanello rinsecchito.

1913

 

Atteggiamento verso una signorina

Quella sera stavo decidendo:

e se diventassimo amanti?

È buio,

nessuno ci vedrà.

Mi sono chinato davvero,

e davvero

io,

chinandomi,

le ho detto

come un buon genitore:

“Scosceso è il dirupo della passione:

fate la brava,

fate un passo indietro

fate un passo indietro,

fate la brava”.

(1920)

Ecco!

Fra un’ora da qui, in un lindo vicolo

gronderà da ogni uomo il vostro flaccido grasso,

io vi ho aperto tanti di quegli scrigni di versi,

io, scialacquatore, sprecone di parole senza prezzo.

Eccovi, uomo, hai tra i baffi del cavolo

resti di zuppe che da qualche parte non hai finito

eccoti, donna, tutta asfaltata di belletti,

avete l’aria di un’ostrica che viene dalle valve delle cose.

Tutti voi, sulla farfalla del poetico cuore

spaparacchiatevi, luridi, chi con calosce chi senza calosce.

La folla si imbestialisce e si struscia,

drizzerà le zampette il pidocchio centocefalo.

E se oggi io, unno tamarro,

non ci sto a farvi da giullare, vedrete

come mi metto a ridere e con gioia sputo,

vi sputo in faccia

io, sprecone, scialacquatore di parole senza prezzo.

(1913)

Inno al pranzo

Gloria a voi, che andate a pranzo a milioni!

E a voi che a migliaia vi siete già rimpinzati!

A voi, inventori di kaše, bistecche e di brodi

e migliaia di tanti altri piattoni.

Se a colpi di cannone

rase fossero al suolo migliaia di Reims –

le pollastre avrebbero lo stesso le cosciotte,

e il roast-beef respirerebbe lo stesso!

Pancia in cilindro! Figuriamoci se a te ti contagiano

con la nobile morte per una nuova era?!

Una pancia non può ammalarsi di niente,

se non di appendicite o di colera!

Che nel lardo anneghino tutte le pupille

tanto tuo padre le ha fatte per niente;

all’ intestino cieco infilagli almeno gli occhiali,

tanto comunque l’intestino non vedrebbe un accidente.

Sei mica male così! Al contrario,

oh, se potesse una bocca senz’occhi né nuca,

trangugiarsi in un sol boccone

una bella zucca ripiena.

Stattene buono sdraiato, senza occhi né orecchie,

con un bel focaccione in mano,

mentre i tuoi figli sul tuo buzzo

giocheranno a crocket.

Dormi, senza crucciarti del panorama di sangue

e nemmeno del mondo cinto da incendio,

di latte abbonda il vigore della mucca,

e smisurata è l’ abbondanza della carne taurina.

Se spezzassero l’ultimo collo di toro

e l’ultimo filo d’ erba dalla pietra grigia,

tu, fedele schiavo delle tue abitudini,

dalle stelle ricaveresti cibo in scatola.

E se schiatterai di brodaglie e cotolette,

sulla lapide ti faremo incidere:

“Dei tanti e tanti milioni di cotolette

le tue quattrocentomila”.

(1915)

 

FUNERALI MOSTRUOSI

Tetra sino al nero uscì fuori la gente,

grave e composta si schierò nella città,

come se stesse per radunarsi

di cupi monaci un nero ordine.

Il lutto dei corvi listava le finestre,

il cielo verniciato di tempesta,

tutto era stato così intonato e accostato

che volente o nolente si attendeva la sciagura.

Allora si fendette , gemendo e controvoglia,

l’ocra arida dell’aria polverosa,

e dall’aria strisciò fuori avanzando

il silenzioso catafalco dei funerali mostruosi.

Allarmata si rianimò una massa d’occhi,

gettarono un monte di sguardi sulla bara.

D’un tratto dalla bara schizzò un ghigno,

poi –

il grido: “Seppelliscono il riso defunto!”

dal mantice di mille petti,

tuonò amplificato a milioni dagli echi

dietro alla bara che avanzava

E subito i coltelli d’un pianto disperatissimo

si conficcarono, costringendo a niente capire.

Ecco dietro la bara, in lacrime, la vita-vecchietta,

del riso defunto madre canuta.

Ma da chi, da chi potrà ritornare?

Guardate: quello, tutto calvo,

è il grande, nasuto

aneddoto armeno che piange.

Ancora non s’era dimenticata la sua smorfia,

che già lo rincorreva lacera, monca,

strillando l’arguzia.

Dove – se è morto – le resta da ficcarsi?

Già sino al cielo è il macigno dei pianti.

Ma ancora,

ancora, chissà da dove, piagnucolii:

erano orde intere di sorrisetti e sorrisi

che nella disperazione spezzavano i fragili ditini.

Ed ecco, fra le loro schiere, fradice fuse

in un unico singhiozzante Garšin1,

spuntò l’orrore, per avanzare,

immerso nella marcia funebre.

Il volto s’inzuppò, divenne poltiglia,

sgualcita di rughe sulla fronte aggrottata,

e, se qualcuno ride, sembra

che gli abbiano lacerato un labbro.

1915

(Giulia Marcucci)

PENSIERI ALL’APPELLO

Spetta forse alla guerra pensare:

“Che brutta cosa le cicatrici?”

Spetta forse a lei

impietosirsi per il macello delle città?

Come un bravo giocatore,

la morte

sparpagliò i teschi

a biglie

nelle buche delle tombe.

Arde la terraferma.

I paesi, ridotti a niente.

Si arruffa

la liscia frangetta del mondo.

Sentite?

Va bene?

Altro che nacchere!

Non è mica uno schioccare di pallottolieri.

Ma io non mi impietosisco.

Non farò la faccia triste.

Facciano pure

d’un delicatino

un cosacco.

Mandato

alla scuola di ‘sto nuovo gioco,

ritornerà

abbigliato di nuova tempra.

Fu l’anima rovistata dai poeti.

Chi splende parla di qualsiasi cosa.

Il cuore:

un nobilissimo album

con le chiomate delle cartoline.

E adesso

provaci.

Passagli l’ “Anatema”.

Nelle tane della mistica fallo intalpare.

Adesso

la sua anima

un cavo,

e ogni muscolo,

piantaci pure un chiodo.

È forse a lui

che spetta di piagnucolare

nella fossa dell’appartamento?

Ma è questa

la maniera che piace a voi:

la tenerezza

dalla memoria

strappare con le radici,

torcere le teste ai nervi urlanti.

Laggiù!

Nella fucina universale,

in restauro .

Tornerete.

Di una nuova Sparta racconterò, io.

Ai deboli invece,

oh morte,

biscazziere dei tempi,

grida:

“Giocata!”

1914

(Giulia Marcucci)

LA MAMMA E IL CREPUSCOLO UCCISO DAI TEDESCHI

Lungo nere strade bianche madri

si prostrarono convulse, come broccato sulla bara.

Piansero a chi urlava sul nemico battuto:

“Ah, chiudete, chiudete gli occhi dei giornali!”

Lettera.

Mamma, più forte!

Fumo.

Fumo.

Fumo ancora!

Mamma, cosa mi mugugnate?

Vedete:

tutta l’aria è lastricata

di pietra crepitante sotto le pallottole!

Ma-a-a-amma!

Hanno trascinato adesso il crepuscolo ferito.

A lungo ha tenuto duro,

codimozzo,

ruvido,

e d’un tratto,

con le pingui spalle spezzate,

è scoppiato in pianto, misero, sul collo di Varsavia.

Le stelle in fazzoletti d’indiana celeste

guaivano:

“È stato ucciso,

caro,

il mio caro!”

E il novilunio sbieca l’occhio terribile

al pugno morto stringendo il caricatore.

I villaggi lituani accorsero a guardare

come Kovno, piantato nel moncherino a guisa di bacio,

colmando di lacrime gli occhi dorati delle chiese,

spezzava le dita delle strade.

Grida invece il crepuscolo

zoppo,

monco:

“Non è vero,

ancora posso, –

  • eccome!

facendo tintinnare gli speroni in un’ardente mazurca

attorcigliare il baffo biondo!”.

Telefonata.

Che avete,

mamma?

Bianca, bianca, come broccato sulla bara.

“Smettetela!

Riguarda lui,

l’ucciso, il telegramma.

Ah, chiudete,

chiudete gli occhi dei giornali!”

1914

(Giulia Marcucci)

1 V.M. Garšin (1855-1888), scrittore russo noto per il pessimismo e il tono cupo che pervade la sua produzione letteraria e critica.

 

RIVOLUZIONE

Poetocronaca

26 febbraio. Ubriachi, mescolati alla polizia,

i soldati sparavano al popolo.

Per barbagli d’armi e di lame si sparse

l’alba.

Rosseggiò lunga e purpurea.

Nella intirizzita caserma

severo,

lucido

pregava il reggimento Volynskij.

Sul crudele

dio dei soldati giuravano

i reparti,

la multifronte testa sbattevano a terra.

Il sangue si accendeva, venando le tempie.

I pugni stringevano il ferro con rabbia.

E al primo,

che ordinò:

“Sparate a chi ha fame!”

tapparono lo sbraito con una pallottola.

Qualcuno urlò: “Sull’attenti!”,

ma non terminò.

Fu trafitto.

Reparti in tempesta invasero la città.

Ore 9:00.

Al nostro solito posto,

nella scuola militare di automobili

stiamo

serrati da una cerchia di caserme.

L’alba s’avanza,

trafigge col dubbio,

spaventa e rallegra col presentimento.

Alla finestra!

Vedo

da lì,

dove il cielo è squarciato

dalla linea dentellata dei palazzi,

s’invola

dispiegandosi, l’aquila dell’autocrate,

più nera di prima,

più malvagia,

più aquilina.

Di colpo

la gente,

i cavalli,

i lampioni,

le case

e la mia caserma

a flotte

di cento

si riversarono in strada.

Frantumato dai passi, risuonò il selciato.

Fracassò le orecchie l’incredibile avanzata.

Ed ecco chissà,

se dal canto della folla,

o dal rame impetuoso delle trombe dei soldati,

non da mano umana creata,

perforando la polvere con un fulgore,

si erge un’immagine.

S’infiamma.

Rosseggia.

È sempre più largo delle ali l’alone

più indispensabile del pane,

più bramata dell’acqua,

eccola:

“Cittadini, fucili in pugno!

Armi in pugno, cittadini!”

Sulle ali delle bandiere,

fiumana dalle cento teste,

dalla gola della città è volata nei cieli.

Con i denti delle baionette ha azzannato il bicipite

nero corpo dell’aquila imperiale.

Cittadini!

Oggi crolla il millenario “prima”.

Oggi dei mondi viene rivista la base.

Oggi

fino all’ultimo bottone

rifaremo di nuovo la vita.

Cittadini!

Questo è il primo giorno del diluvio operaio.

Andiamo

a salvare il mondo sconquassato!

Che le folle conficchino in cielo la marcia!

Che le flotte ruggiscano con la furia delle sirene!

Guai all’aquila bicipite!

Spumeggia il canto.

Ubriaca la folla.

Sciabordano le piazze.

Su una minuscola ford

corriamo,

superando le pallottole inseguitrici.

Con fracasso di clacson ci facciamo strada in città.

Nella nebbia.

Fumiga il fiume delle strade.

Come una dozzina di barconi carichi nella tempesta

sulle barricate

scorre rimbombando la marcia della Marsigliese.

La mina infuocata del primo giorno

ronzando è piombata dietro la cupola della Duma.

Il tremito nuovo di una nuova mattina

incontriamo nel delirio di nuovi dubbi.

Cosa succederà?

Li scaraventeremo dalle finestre,

o aspetteremo

sulle brande

che di nuovo

la Russia

sia incurvata dal monarca

sotto il peso delle tombe?!

Stordisco l’anima con un secco sparo.

Avanti,

trincerato nell’uniforme.

Sfasciando le case nel crepitare del mitra,

la città rimbomba.

La città brucia.

Ovunque lingue di fiamma.

Turbinano e scemano.

Turbinano di nuovo, spargendo scintille.

Sono le strade che,

sollevata la rossa bandiera,

chiamano la Russia con l’appello degli incendi.

Ancora!

Oh, ancora!

Oh, ammaestra più vivido, oratore rosso-linguato!

Soffoca del sole

e della luna i raggi

con le dita vendicatrici di un Marat dalle mille braccia!

A morte l’aquila bicipite!

Irrompi,

dei bagni penali alle porte,

con gli artigli divorane la ruggine.

Di ciuffi di nere penne aquiline

imbottite, stramazzano le guardie.

Cede la rovente carcassa della città.

Per le soffitte si è estesa la caccia.

L’ora è vicina.

Sul ponte Troickij

avanzano in folla i soldati.

Scricchiolando fremono i piloni e le staffe.

Serriamo.

Ci battiamo.

Un secondo!

E nella vernice

del tramonto

dalle torri della fortezza di Pietro e Paolo

s’innalza la bandiera infuocata della rivoluzione.

A morte l’aquila bicipite!

I grossi colli delle teste

mozzate di netto!

Affinché più non si ridesti.

Eccola!

Cade!

L’ultimo alle spalle lo ha arpionato!

“Dio,

accogline quattromila nel tuo grembo!”

Basta!

A pieni polmoni strombazzate la vostra gioia!

A noi

di Dio

che ci frega?

Da soli

ai nostri santi daremo l’unzione.

Perché mai non cantate?

Oppure

gli animi sono forse stati soffocati dal sudario siberiano?

Abbiamo vinto!

Gloria a noi!

Glo-o-or-r-ria a noi!

Finché terremo in pugno le armi,

regnerà una volontà nuova.

Portiamo alla terra tavole nuove

dal nostro grigio Sinai.

Di noi,

Inquilini della Terra,

ogni Inquilino della Terra è parente.

Tutti

tra i macchinari,

per gli uffici,

nelle miniere sono fratelli.

Noi tutti

sulla terra

siamo soldati di un unico

esercito che forgia la vita.

Le traiettorie dei pianeti,

la vita degli stati

sono sudditi delle nostre volontà.

Nostra è la terra.

L’aria è nostra.

Nostre sono le miniere di diamanti delle stelle.

E noi mai,

mai!

A nessuno,

a nessuno permetteremo!

Di dilaniare la nostra terra a cannonate,

di straziare la nostra aria con la punta di lance affilate!

Il rancore di chi ha spaccato in due la terra?

Chi ha fatto innalzare il fumo sul bagliore dei massacri?

O forse

un unico sole

non basta per tutti?

O è troppo poco il cielo azzurro su noi?

Gli ultimi cannoni rimbombano nelle liti sanguinose,

le fabbriche sfaccettano l’ultima baionetta.

Costringeremo tutti a disperdere la polvere da sparo.

Ai bambini regaleremo le palle delle granate.

Non è la viltà ad urlare sotto le grigi uniformi,

non è il grido di coloro che non hanno da mangiare;

ma il tuono di un popolo enorme:

– credo

nella grandezza del cuore umano! –

Sulla polvere sbattuta dalle battaglie,

su tutti quelli che si azzuffano, disperando nell’amore,

adesso

l’inverosimile diventa realtà:

è la grande eresia socialista!

17 aprile 1917, Pietrogrado.

A TUTTO

No.

Non è vero.

No!

Anche tu?

Amata,

perché,

perché mai?

Va bene

ci sono andato,

ho regalato fiori,

ma non ho mica rubato cucchiai d’argento dal cassetto!

Pallido,

sono barcollato giù dal quinto piano.

Il vento mi ha arso le guance.

Turbinava la strada fra guaiti e nitriti.

Lascivi si accavallavano i clacson.

Sulla stordita vanità della metropoli hai innalzato

la fronte –

di antiche icone –

severa.

Sul tuo corpo – come sul letto di morte –

il cuore

i suoi giorni

ha esaurito.

Nel brutale assassinio non t’insozzasti le mani.

Ti

scappò appena un:

“Sta in un morbido letto

lui,

e ha la frutta

e il vino sul palmo del comodino”.

Amore!

Solo nel mio

infiammato

cervello

esistevi tu!

Quest’insulsa commedia fermate!

Guardate!

Strappo la corazza-giocattolo

io,

grandissimo Don Chisciotte!

Ricordatevi:

Sotto il fardello della croce

Cristo

per un attimo

stanco, ristette.

La folla strillava:

“Cornuto!

Cornu-u-to!”

Giusto!

Colui

che

implorerà riposo,

coprilo di sputi nel suo giorno di primavera!

Per l’esercito dei volontari condannati

dall’uomo nessuna pietà.

Basta!

Adesso –

lo giuro in nome della mia forza pagana! –

datemene

una qualsiasi

giovane,

bella,

non mi ci giocherò l’ anima,

la violenterò

e nel cuore le sputerò beffe.

Occhio per occhio!

Le semine della vendetta mieti mille volte di più!

In ogni orecchio ulula:

tutta la terra

è un forzato

con la testa mezza rasata dal sole!

Occhio per occhio!

Mi ucciderete,

seppellirete

ma io mi dissotterrerò!

Contro le pietre si affileranno di nuovo i coltelli dei denti!

Come un cane mi caccerò sotto le brande delle caserme!

Rabbioso

comincerò

ad azzannare i piedacci

puzzolenti di sudore e di mercato.

Nella notte trasalirete!

Io

ho chiamato!

Come un toro bianco sono cresciuto sulla terra:

muuuu!

Al giogo il mio collo si è lacerato in una piaga

e sulla piaga turbini di mosche.

Mi trasformerò in renna,

tra i cavi elettrici

impiglierò la testa ramosa

con gli occhi iniettati di sangue.

Sì!

Come un animale braccato resterò in piedi sul mondo.

Non è dato fuggire all’uomo!

Una preghiera sulle labbra,

s’è disteso sulle lapidi implorante e sudicio.

Prendo

e vado a scarabocchiare

un Razin

sulle porte regali dell’iconostasi

e sul volto divino.

Sole! Non sprecare i tuoi raggi!

Prosciugatevi fiumi e non appagate la sua sete,

che a migliaia nascano i miei discepoli

per strombazzare dalle piazze l’anatema!

E quando,

finalmente,

rizzatosi sulle cime dei secoli,

comparirà loro l’ultimo giorno

nelle nere anime degli assassini e degli anarchici

m’infiammerò come uno spettro sanguinoso!

Albeggia.

Sempre di più si spalanca la bocca del cielo.

La notte

lei se la beve sorso dopo sorso.

Dalle finestre il bagliore.

Dalle finestre fluisce il calore.

Dalle finestre il denso sole si diffonde sulla città dormiente.

Santa vendetta mia!

Di nuovo

dalla polvere delle strade

conducimi in alto sui gradini dei versi!

Il cuore colmo fino all’orlo

riverserò

in una confessione!

Gente futura!

Chi siete?

Eccomi qua,

sono tutto

dolorante e pieno di lividi.

A voi affido il frutteto

della mia grande anima.

1916

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