2. Il paese e i suoi nemici (continuazione)
… Un fischio attraversa il baccano della stazione. Gli attendenti voltano il capo. Si allontana un treno merci con destinazione Kuznezk. Pesanti autocarri sostano sui marciapiedi dei binari, la folla che aspetta sul piazzale della stazione è, a prima vista, monotona. Donne con bambini. Contadini carichi di fagotti. Ma aspettate qui mezz’ora. Vedrete che questa irripetibile folla dell’anno 1931 è propria solo di questo tempo.
Provate a tendere l’orecchio per sentire meglio la conversazione.
“Villaggio Sljudjanka. Là la chiesa è famosa. Vi fecero una perquisizione. Dietro un’icona trovarono tre bombe a mano, una pistola a tamburo e cento biglietti di un’associazione per la promozione dell’ortodossia.”
“Secondo dove vai per la rete ferroviaria, riforniscono poco. Specialmente ad Alma-Ata.”
“Ad Alma-Ata fa caldo?”
“I baffi vanno in brodo come a Parigi.”
“Quest’anno non c’erano alberi di Natale da nessuna parte. Noi eravamo da Galja. Ella sistemava l’albero. Coprirono l’albero con le lucine. Kira declamava versi.”
“Che versi?”
“Dalla Giovane Guardia”
Guardate e ascoltate attentamente. Presto coglierete ogni uomo di questa folla.
Nei nodi ferroviari presto sarà costruita una grande baracca di assi affinché i passeggeri in attesa possano ripararsi dal maltempo.
E’ tutto occupato. Il pavimento, le panche e i passaggi tra le panche. Sopra un tavolo si alza un grande cartello: “L’alloggio dei colcosiani si trova dall’altra parte della piazza. Nell’alloggio del colcosiano si accolgono anzitutto: a) colcosiani con e senza cavalli, b) emigranti a piedi, c) affittuari, d) coltivatori diretti con cavalli e con carico, e) inviati in trasferta, se c’è posto.”
“E a noi dove ci mettono?”, brontola un giovanotto dai capelli arruffati, con i calzoni rattoppati e la giubba lacera. Siede per terra e china la testa su un piccolo cestino. Va in Estremo Oriente. Egli “vuole vedere il mondo”, fa domande sui Cinesi e se è grande la distanza dalla Cukotka all’America. Non cercate di sapere dove sia nato. Fa confusione o svia il discorso. Non chiedete nemmeno chi sono i suoi genitori. Se voi gli ispirerete fiducia, dirà in modo cupo: “Il paparino è un ricco contadino…”.
Dei fischi. Un treno con delle macchine si allontana.
C’è un Ucraino baffuto in pellicciotto di pelle, sua moglie, due bambini.
“Il lavoro forzato è tutta la nostra vita”, dice la moglie e sospira.
“Sono 25 anni che soffriamo. Venimmo nella provincia di Ussurijsk nel 1890. Ci assegnarono la terra per cento dessiatine di numero. Un altro non avrebbe lavorato per niente: avrebbe comprato i buoi, i cavalli e poi avrebbe dato la terra a questi capelluti Coreani … in affitto…”.
La sala d’aspetto è piena di fumo di tabacco. Il suo interlocutore tace, ma lei non se ne imbarazza.
“Ora voi direte che il colcos mai sarà. Tutti andranno nei colcos, ma il loro cuore non lavora per il colcos …”
“Varfolomeev, salve! Dove vai?”
“Stazione Alejskaja”
“Bene. Che cosa vi spinge là?”
“Niente, c’è lavoro di produzione, il kombinàt per la lavorazione della barbabietola da zucchero, si costruisce una fabbrica di zucchero e molto altro ancora.”
All’improvviso si è alzato un grido straziante.
“Intervenite, compagni, intervenite…”
La donna che raccontava della vita ad Ussurijsk, è saltata sulla panca e parla a voce alta. Il suo interlocutore è sparito e ha preso con sé il bauletto che stava dietro la sua schiena.
“C’era roba per tremila…”, grida la donna.
Nel nodo ferroviario, in mezzo alla folla, troverete molti ladri, banditi, delinquenti. Essi si sono anche spostati dai propri luoghi e viaggiano per il paese in cerca di una vita migliore. Nel mondo dei ladri regna l’angoscia.
Nelle ultime “bettole” e “covi di ladri” si dice con perplessità che la professione del ladro stia giungendo alla fine. L’ambiente dei ladri è colpito. Il GPU effettua una quantità di arresti senza precedenti tra i delinquenti. Già non ci sono più i ricchi “carassi”, opportuno bottino al tempo della Nep. “Succedeva che entravi nella Borsa nera con i dollari e davi al socio un simbolo…; entriamo nel primo treno che arriva, vediamo cosa c’è in questa scatoletta oltre ai brillanti…”. Tutto questo è passato. Ora tutte le cose di grande valore sono proprietà collettiva. La parola “socialismo” acquisisce un senso minaccioso nel mondo dei ladri. Con un sorriso raccontano: “Adesso ci fanno lavorare”.
Lo scassinatore Fedjukin, nella lettera ad un compagno, scrive: “Noia: i comunisti mi hanno tolto la vita, hanno spento le nostre allegre bettole, niente suonatori di fisarmonica, né giochi, né carne, non un rublo. Dove spendere le forze? Tutte nelle carte”. Fedjukin è tormentato dalla noia.
Il borsaiolo Kovalev, venuto a Mosca, ha incontrato un compagno che gli dice che a Mosca non si fa vita: “Qui Vul’ ha ripristinato l’ordine”.
“Allora io faccio dietrofront”, dice Kovalev , “e vado in Bielorussia”.
Egli va nei vagoni, stracolmi di brigate d’assalto e ascolta i discorsi sui successi del Magnitogorsk e degli attacchi dei kulàki.
Ad ogni periodo storico corrisponde un particolare tipo di vagone. Tutti ricordano il carro merci con riscaldamento dell’anno ’20. Esso è descritto così dettagliatamente che è possibile stendere una ricerca scientifica sulla popolazione, abitudini, abbigliamento, attrezzi, parassiti, cibo, commercio e industria del carro merci riscaldato dell’anno ’20.
Dopo comparvero i pacifici treni della Nep, divisi in classi e che non lasciavano particolari ricordi.
Il treno del 1931 rappresenta già qualcosa di nuovo.
In treno viaggiano le brigate d’assalto, quelle degli inviati in trasferta e quelle dei mobilitati. Quattro vagoni sono occupati dalla brigata Sverdlov. Tutti vanno ai lavori di semina in Siberia. L’agitbrigata degli attori è somigliante ad un distaccamento di guerra: hanno giubbe mimetiche, calzoni militari. Ci sono studenti che vanno ad occupare posti di dirigenti. Responsabile di miniera, direttore di scuola. C’è una famiglia della Nep. Vanno dal padre, deportato nel Tomsk. Gli sverdlovcy giocano a carte e tengono dispute filosofiche. Ecco che uno rimprovera l’avversario di antidialettica. In risposta quello avanza un’accusa sull’ibridismo. Questi sono i giovani operai. La loro impetuosa erudizione non dà quieto vivere alla famiglia della Nep. Un migliaio di nomi sconosciuti e di termini, gridati con terribile fervore, si scagliano su di essa, impedendo di dormire o di leggere un romanzo tradotto.
Nell’altra parte del vagone gli studenti di agraria scoppiano in una risata e continuano fino alle lacrime, dopo aver scoperto tra di loro un codardo che si è spaventato delle voci sugli attacchi dei kulàki.
Dal finestrino del vagone si vedono nuovi tipi di costruzioni. Un montacarichi, un grattacielo di campagna, le tettoie circondate da mura dell’MTS, i fortini della tecnica agraria, il club della zona con le pareti che sembrano di cemento, una casa a tre piani che improvvisamente s’innalza in mezzo al campo di cavolo.
Un’enfasi di estensione abbraccia i passeggeri che viaggiano in treno. Essi tirano fuori la carta e ragionano su dove sia possibile costruite le strade.
“Per fare di questo un ruscello proficuo”, dice un soldato dell’Armata Rossa, un giovane rincagnato di Riazan’, “bisogna far esplodere tutte le colline e portarci l’acqua dal Kama”.
Le redazioni dei giornali ricevono tutti i giorni centinaia di lettere con appendici materiali, avvolte nella tela.
“Vi spedisco un frammento di pietra che ho trovato ieri durante una passeggiata in città. Non è forse questa pietra un minerale di rame?”
L’idea dei tesori naturali nascosti sotto terra agita i passeggeri ed essi ne parlano spesso.
Ecco una fermata del treno della quale si ricorderanno tutte le persone che viaggiavano per il paese durante il 1° piano quinquennale.
In uno di questi treni viaggia Kovalev. Egli ascolta i discorsi e nella sua zucca testarda compaiono nuovi pensieri, ma egli ci ride sopra, non si arrende, va a Minsk, ruba di nuovo, va a Leningrado.
Dopo a Perm. Da là a Sverdlovsk. Qui, alla stazione, fu arrestato.
Leggerete ancora del suo destino.
… In un angolo della sala d’aspetto, tre uomini di buona costituzione siedono intorno ad un mucchio di ceste e fagotti. Hanno chinato la testa l’uno verso l’altro. Discorrono sottovoce, lentamente. L’espressione dei loro volti si assomiglia. Visi rudemente beffardi con una sfumatura di strana ipocrita insolenza. Non è possibile sentire i loro discorsi. Se vi avvicinerete a loro, essi subito, in modo sospetto, smetteranno di parlare e vi guarderanno freddamente e in modo fisso.
Questi non sono ladri. Essi custodiscono i loro fagotti con l’attento zelo dei proprietari. Ecco che uno di loro mostra certe carte. L’altro scrive una lettera. Chi sono queste persone? Che cosa scrive quest’uomo?
Nel circondario di Minusinsk, da un battista arrestato per la rivolta dei kulàki, hanno trovato una lettera dal seguente contenuto:
“Pace e gioia a voi da nostro signore Gesù Cristo. Unitevi con l’anima a Dio e cantate alleluia. Da voi ho ricevuto una lettera, caro fratello Andrej, nella quale voi scriveste, che è possibile comprare a buon mercato nella nostra provincia. A Letkij il pane e i prodotti alimentari si trovano al mercato quanto vuoi, se ci sono i soldi. A Staroj Basan’ un pud di carne costa 5 rubli, 1 libbra di pelle di bue 25 copechi; a Sgurovka la farina di segala 4 rubli. Mentre, più avanti nella steppa, c’è un calo di prezzi. La farina si trova a 2 rubli e a 1 rublo, soltanto è difficile trovarla: la speculazione è fortemente proibita, tuttavia portano, afferrano, giudicano e multano i commercianti, così che, penso io, anche da voi c’è il potere sovietico e le leggi sono identiche…Canto con mia moglie il salmo 528: la voce della fede, vola un tempo spietato. Ovunque collettivizzano e non c’è salvezza per il riccone. Io, intanto, grazie a Dio, vivo in salute per grazia del Signore e sto alla porta di Sodoma, aspettiamo qualcosa…”
Dall’ex presidente del colcos, che fu arrestato nel marzo 1931, nel villaggio Lykovo, nella regione Kascirskij, fu trovata questa lettera:
“Caro figlio, ti informiamo che entreremo nel colcos; premono da tutte le parti, vieni al più presto; forse nel colcos non vi ammetteranno, dicono che avevate un lavoro dipendente, ma noi diciamo che siete con noi, in cooperazione Petr. Ti baciamo immensamente. I tuoi genitori.”
Petr Osipov viene accusato del fatto che, dopo essersi procurato falsi documenti da un lavoratore della cooperativa, dopo essere venuto nel villaggio ed essere stato scelto nel consiglio di amministrazione del colcos, si è servito della sua posizione e ha distrutto il colcos.
… Strane persone potete incontrare nei nodi ferroviari.
Ecco che per la stazione passò un tale che, procedendo con circospezione, cominciava a correre nel gabinetto pubblico e, trattenendo con la mano i calzoni, scrive sul muro: “Sai, compagno, di qui è passata una guardia bianca, presto tutti i comunisti li appenderemo”. Egli si firma con una croce e disegna sul muro una svastica.
Nessuno conosce quest’uomo. All’apparenza, è un comune cittadino. Egli può farsi assumere in fabbrica oppure partire per Mosca.
Domani, forse, lo incontrerete già per le strade di Mosca, ecco che va davanti al Cremlino, guarderà il mausoleo di Lenin.
La gente nelle zone rurali e nei cantieri, è propensa a considerare Mosca soltanto un quartier generale di un cantiere edile di 21.272.000 chilometri quadrati, quale è adesso la nostra Unione Sovietica.
Là ci sono il ZK, il VKP (6), il Gosplan dell’U.R.S.S. Là c’è il compagno Stalin. “Le persone, nel Cremlino, non dormono mai”. Forse molti sono pronti a figurarsi Mosca come un’enorme ufficio, dove leggono i bollettini e danno le disposizioni.
Mosca è il quartier generale e il centro della battaglia. Adesso a Mosca si fa la preparazione per il XVII Congresso del partito. Il telegrafo trasmette i bollettini dei comitati regionali del partito, le risposte dei comitati provinciali alle richieste dello ZK. Negli istituti di ricerca scientifica centinaia di persone elaborano materiali e resoconti. Di notte, nell’ufficio dello stanco commissario del popolo, suona il telefono: “Il compagno Stalin parlerà con voi”. Il commissario del popolo aspetta alla cornetta. Stalin si informa da lui relativamente a due cifre che gli si mostrarono dubbie, nel rapporto del commissario del popolo. Di mille teste mobilitate e dal materiale grezzo dei bollettini, dei rapporti scientifici si formano i primi bilanci delle battaglie di quattro anni.
E come dal caos esterno del cantiere crescono, sotto la guida del centro direttivo del partito, i solidi contorni del socialismo, così da tutto questo lavoro apparentemente incoerente, le centinaia di persone sconosciute l’una con l’altra, il centro direttivo del partito trae chiare e precise indicazioni. Nasce con la battaglia, la disposizione del 2° piano quinquennale che determina anche i destini dei nostri eroi. Il 2° piano quinquennale è quello della costruzione di una società senza classi. Questo non significa l’attenuazione della lotta di classe. La lotta di classe sarà ancora aspra in singole regioni, in singole circoscrizioni del grande cantiere, ma in questo inasprimento doveva essere realizzato un nuovo grande compito, parte del quale è l’obiettivo del Belomostroj.
Sradicare le sopravvivenze del capitalismo non solo dall’economia, ma dalla coscienza delle persone. Presto Postyscev trasferirà questo piano generale del 2° piano quinquennale nella lingua degli obiettivi della politica sovietica di lavoro correzionale. Presto sentiranno nuove parole sulla trasformazione, sulla rieducazione del nemico classista di ieri. Questo sembra quasi impossibile, ma avverrà: così hanno deciso i bolscevichi, così ha deciso il partito. Mosca è il centro direttivo.
Ma Mosca è parte del paese e tutto ciò che è caratteristico per il paese, lo troverete anche qui. L’aspetto di Mosca cambia.
Sul terreno della palude di Sukin, giorno e notte s’innalzano enormi edifici… Qui tra poco ci sarà la fabbrica dei cuscinetti a sfera intitolata a Kaganovic.
Si riorganizza e si rafforza molte volte l’AMO. S’innalza lo Stankostroj. Nella piazza Puskin si trova l’annuncio: “Un saluto ai lavoratori delle fabbriche elettriche che hanno realizzato il piano quinquennale in due anni e mezzo.”
È stata abbattuta la cattedrale di Cristo. Dalle mura, fatte saltare per aria, sporgono travi di ferro. Si libera il posto per il futuro Palazzo del soviet. In tutti i quartieri si possono vedere nuove case in architettura a cassetto di cemento armato del 1931. In mezzo a queste, ce ne sono di brutte e di molto belle. In esse scorre la vita intensa con i turni di notte, le telefonate e le finestre illuminate fino al mattino.
Mosca lavora, Mosca è pronta per i preparativi per il Congresso del partito e rivolge poca attenzione all’altro “congresso” che si svolge nello stesso periodo.
Ecco che dalla stazione arriva un gruppo di contadini con i visi cupi e beffardi, con pellicce della Siberia; portano delle seghe avvolte nel feltro. Per la strada essi non disdegnano di accattonare l’elemosina. Chiedono ai passanti come raggiungere la fabbrica. Essi dicono il nome della fabbrica. “I miei parenti sono là”, dice uno di loro.
Nelle stazioni e nei portoni s’incontrano le persone dalle diverse repubbliche. Essi raccontano: “Ma da noi…” (e aggiungono una parolaccia). Questi sono kulàki in fuga. Spesso si introducono nelle fabbriche. Ed ecco che, nella macchina che si è rotta, un operaio ci trova una sbarra buttata dentro.
Mosca!
Voi andate per le sue strade, davanti a voi c’è la Presnja. Il quartiere proletario, gli anelli asfaltati dei viali. La Taganka: voi camminate per le colline, di collina in collina, di strada in strada; tutto questo è ragguardevole e antico, degno di ogni genere di rispetto. Vi siete fermati davanti al Teatro Bol’soj, vedete le sue colonne, i suoi cavalli dalle criniere color rame e non li vedete. Ed il teatro vi è scappato di mente e anche i cantanti, i ballerini, gli artisti. Davanti a voi si è alzato un paese grandissimo, le grandissime reliquie del paese che parla qui per bocca dei suoi migliori figli.
Presto qui risuonerà la voce del XVII Congresso del partito.
Le azioni e i lavori di tutto il nostro paese saranno definiti dal partito un anno prima. E’straordinario questo lavoro del Congresso, delle sedute del VKP(b), sono straordinarie queste disposizioni, nelle parole precise e decise che determinano la dinamica della storia.
D’inverno, alla vigilia del nuovo anno, il plenum del Comitato Centrale ha deliberato: “Aumentare il numero degli operai e impiegati da 14 a 16 milioni…”.
L’estate del 1931 la delibera è stata eseguita.
Il plenum decide: “Assicurare nel 1931 il coinvolgimento delle aziende collettive; non meno dell’80% delle aziende contadine per l’Ucraina (steppa), Caucaso Settentrionale, Basso Volga, Volga Centrale.”
Dopo mezzo anno questa disposizione fu compiuta.
Il plenum estivo portò la delibera intorno alla relazione del compagno L.M.Kaganovic: “Oltre ai citati attuali provvedimenti, lo ZK considera radicalmente necessario eseguire l’opera di adduzione dell’acqua dei fiumi di Mosca, per mezzo del collegamento con l’alto corso del Volga e incarica le organizzazioni moscovite, insieme al Gosplan e al Narkomvod, di iniziare immediatamente la stesura del progetto di questo impianto.”
Col tempo questa delibera ci aiuterà a capire molto. Noi la ricorderemo già in questo libro.
Già da qualche parte tagliano la carta per la stampa delle tessere di delegato. Già, ispezionano nella strada gli stivali, da qualche parte, nella Iakuzia e nel Leninakan. Già dal Mar Caspio, i Tunguski dalla tundra o il mužik degli Urali o l’oriundo dell’Amur, depone le staffe aggiustate, sorride affettuosamente, e il figlioletto sa di che cosa sorride e chiede:
“Dove vai di nuovo?”
“Parto, vado al Congresso.”
“Mi porterai del pan pepato?”
“Come lo vuoi? Col miele?
“Col miele.”
“Se lo vuoi col miele, te lo porterò così.”
Egli va con un ottimo cavallo ingrassato verso la stazione. E’ bello per lui andare sul cavallo festoso e tutti capiscono del perché vada a cavallo, sul quale il soviet del viaggio trasporta soltanto o il segretario del comitato o gli ospiti dal centro o, per un particolare bisogno, qualsiasi persona meritoria del villaggio. Tutti dicono: “Nikolaj Petrovic è andato al Congresso a Mosca”. E a tutti fa piacere che proprio non uno qualunque, ma quel Nikolaj Petrovic, completamente nel pieno diritto, abbia ricevuto l’incarico di andare al Congresso.
Di sangue egli ne ha sparso non poco. Ovunque ne ha versato per il proletariato e per il popolo, ovunque il suo sangue dal Kubàn al Mare di Okhotsk, sarebbe bastato per mandare all’altro mondo una decina di persone, ma lui è perfettamente vivo e in salute.
Il minatore passa il piccone ad un altro, stringe le mani ai compagni. A lungo si lava sotto la doccia, si lava con cura i denti, indossa biancheria pulita e, sopra, una camicia ricamata. La moglie prepara i pasticci nella valigia di legno. La moglie lo bacia forte, come soltanto sa fare la moglie di un minatore; così fortemente baciano le mogli dei minatori, più forte delle altre mogli al mondo. Il minatore va alla stazione con compostezza. La locomotiva brilla, il macchinista fa capolino, tenendo fuori con baldanza un piede in un angolo, gli occhi del macchinista brillano; ma come potrebbe essere altrimenti, quale amico egli porta a Mosca!
Il fonditore del forno affida la propria brigata all’aiutante, convincendolo a lungo a sorvegliare “con i propri occhi” il forno, poiché in questo mese “ci suonano la carica monella e l’acciaio è preso con la pressione”. Egli va con la cartella e la tessera del partito per la scivolosa, metallurgica fanghiglia del bacino del Don. Si tratta di un particolare fango pesante, quando le galosce come chiodi, si attacca alla strada, il disgelo, se vedete, va con un gesto particolare, facendo alcuni particolari passi.
Ed ecco che essi si riuniscono qui. E l’orchestra comincia a suonare, Tutti si alzano. I bambini attraversano il palco correndo, portando i fiori alla presidenza, sfilano con passo di marcia solenne gli anziani operai, i soldati dell’Armata Rossa, i marinai con i loro rapporti, gli studiosi di fama mondiale dell’accademia. Di nuovo si alza tutta la sala oro-porpora del teatro, comincia a tremare il lampadario dagli applausi. E’ tutto il paese che saluta il dirigente. Questo è Stalin, il loro amico, compagno, insegnante e anche una cosa enorme, un’anima un po’ particolare ed eccellente, come se fosse semplice, ma nello stesso tempo straordinariamente rara ed elevata, tutto quello che l’umanità chiama genio. Egli sta nella sua semplice giubba e 140 nazionalità lo salutano. Sono 140! Ecco che questo saluto si ripete anche nei caldi oceani, tra i fuochisti davanti ai focolari dei piroscafi, tra gli operai nei bacini di Shangaj, dagli operai nelle praterie, i coltivatori e allevatori di bestiame, i minatori del Ruhr, i metallurgici del Belgio, i braccianti dell’Italia, nelle miniere della California, nelle miniere di smeraldi dell’Australia, dai negri dell’Africa, i coolies della Cina e del Giappone: tutti oppressi e soggiogati.
A Mosca, nel 1931, è mutata la folla di strada, sono scomparsi definitivamente i ricconi troppo grassi e le loro donne agghindate che si notano, ad un primo sguardo nella strada di qualsiasi altro paese. Nella folla è quasi impossibile vederci chiaro. Qui non esistono i concetti: viso da operaio, viso da impiegato, fronte severa dello studioso, l’energico mento dell’ingegnere, dei quali amano scrivere all’estero. Lo studioso tedesco Kurz scriveva: “Il governo è obbligato ad effettuare i censimenti psicometrici delle masse popolari affinché ognuno occupi soltanto il posto a lui prescritto per natura (ovvero dalla società classista)”. L’antropometrista occidentale, che è capitato nella folla preoccupata ed energica, che ha gremito la Tverskaja e la Sadovaja, la Mjasnizkaja e l’Arbat, che ha preso d’assalto i tram nuovi di zecca (nei quali gli universitari leggono le equazioni, tenendo in una mano il libro e con l’altra si aggrappano al cappio di cuoio; dove i dirigenti passano verso l’uscita discutendo delle cifre di controllo), che lotta per i taxi ancora poco numerosi, che litiga in fila ai magazzini, ai chioschi dei giornali e ai cinematografi, era perso e non poteva capire niente.
Ecco un passante: ha il pellicciotto conciato aperto, la camicia russa, il viso robusto rozzamente tagliato, lo sguardo fisso, le mani in tasca, il passo cadenzato militare. Quest’uomo può rivelarsi un professore di filosofia o un grande amministratore. Egli vive un’intensa vita intellettuale, lo appassionano le più grandi idee dell’epoca. Ecco un altro, con un viso da artista, cortesemente cede la strada, col cappello e gli occhiali a molla. In genere questo è un computista. Il contenuto della vita delle persone è considerevolmente cambiato, ma all’apparenza ancora non si è mutato; per questo la folla nel 1931 è ancora così poco distinguibile. Le persone sovietiche esperte distinguono in mezzo alla gente, un particolare segno del tempo. “Il nostro uomo”, dicono essi, guardando attentamente. O “non nostro”. Ma anche questi sono segni convenzionali superficiali. L’effettiva sostanza delle persone la si può comprendere soltanto nel lavoro.
L’ingegnere indossa la camicia russa, il suo discorso abbonda di slogan, il viso è aperto e pulito. Ma nel suo reparto inspiegabili avarie si fanno più frequenti. Se si capita nel suo appartamento dove egli toglie la camicia russa e, come un’investitura, annoda la cravatta, si può sentire la seguente conversazione, resa nota dalle testimonianze al processo dei sabotatori dell’industria alimentare:
“La posizione è completamente inammissibile”
“Non si può stare tranquilli neanche un minuto”
Particolarmente caratteristico fu il discorso di Voronzov, il quale assegnava la sua attività a dirigere a danno del potere sovietico e fare così, per peggiorare la posizione che si è creata con l’approvvigionamento dei viveri e con questo, provocare il malcontento della popolazione.
Alle 6 di sera, la folla moscovita di strada s’infittisce particolarmente. Alle fermate dei tram ci sono delle vere battaglie. Una donna col viso truccato, col manteau di falsa pelliccia, non può salire in nessun modo sul tram. Si dà da fare in tutti i gruppi che danno battaglia ai predellini, spinge, grida, ma poi rimane sul marciapiede.
Dopo due ore viene arrestata. Su di lei sono state fornite prove di taccheggio. E’ la ex-prostituta Motja Podgorskaja. La prostituzione di strada a Mosca, nel 1931, è diventata quasi impossibile; il lavoro per Motja è semplicemente noioso. Essa ha deciso di darsi al taccheggio. In questo libro incontreremo ancora Motja Podgorskaja.
Ci incontreremo ancora con lei e con molta altra gente che abbiamo già ricordato qui. Essi sono gli eroi della nostra narrazione.
L’inizio delle loro carriere è inglorioso. Essi lottavano con la società, il piano quinquennale, il socialismo. Contro di loro lottava lo stato Sovietico.
“Hanno arrestato di nuovo Vas’ka, qui non si fa più vita”, dice un borsaiolo a Marucha.
“Lo zio Semen l’hanno preso per questo incendio”, dice ai familiari un fiancheggiatore dei kulàki.
“Avete sentito voi che hanno arrestato Risenkampf ?”, dice la moglie del professore. Essa è in ansia. Il suo viso è triste e stanco.
“Per delibera dei colleghi dell’OGPU…”, dice la sentenza, “il cittadino tal dei tali, per i gravi reati contro la classe operaia, è condannato alla deportazione nei lager di lavoro correttivo, per un periodo di dieci anni”.
“La vita è finita”, dice il cittadino tal dei tali. Egli pensa: “Ho 35 anni. Se non riuscirò a scappare…”.
Migliaia di persone sono mandate nei lager. Cosa li aspetta là?
CARCERI E LAGER BORGHESI
ORARIO DELLE TORTURE
Il generale russo Murav’ev represse l’insurrezione polacca nello scorso secolo. Passò alla storia col soprannome di “Murav’ev l’Impiccatore”.
Il ministro francese Thiers affogò nel sangue la Comune di Parigi. Egli rimase nei secoli col nome di “Nano sanguinario”.
Il tedesco social-democratico Noske fucilò centinaia di operai tedeschi. Su di lui si è consolidato per sempre il nome di “Cane sanguinario Noske”. Il ministro social-democratico in niente è diverso da qualunque fascista.
Il generale giapponese Takahasi Hisikari preparò la presa della Manciuria e organizzò sanguinose provocazioni al KVŽD. Egli è noto in Giappone sotto il nome di “General-passerotto”.
Egli ricevette questo soprannome qualche anno fa, quando lo nominarono a comadare la guarnigione all’isola di Formosa. In risposta alle felicitazioni, il generale Hisikari dichiarò: “Mi reco a Formosa saltellando con gioia, come un passerotto”. Questa elegante immagine è presa dal generale dalla poesia classica cinese, della quale egli si considera un conoscitore. Nel Giappone amano l’eleganza della forma. Il vecchio caporale e boia prende il nome del piccolo ed elegante uccellino.
Viaggiando per le ferrovie giapponesi, per le strade si notano con meraviglia gruppi di persone, vestiti di abiti rosa. Da lontano sembrano angeli. Gli angeli innalzano terrapieni e costruiscono rotaie. Tutti i loro movimenti sono accompagnati da un suono melodico. Dopo aver guardato attentamente, il viaggiatore nota pesanti catene alle gambe degli angeli. In Giappone i detenuti indossano abiti rosa per ornare, con le loro figure, il paesaggio. Là amano l’eleganza della forma.
Sull’isola di Riu-Kiu esiste una particolare forma di pugilato. Si chiama “boxe di Riu-Kiu”. Si avvolge in un tappeto un grande vaso di porcellana. Il pugile picchia sul tappeto. Non risparmia le forze. Egli, soltanto, stringe i pugni in modo particolare. L’arte consiste nel ridurre il vaso in cocci, non muovendo il tappeto dal suo posto e non cambiandone la forma di vaso.
Nelle carceri giapponesi il detenuto sta al posto del vaso. Al posto del tappeto c’è la sua pelle. I carcerieri picchiano con i metodi dell’isola di Riu-Kiu. Polmoni, costole e reni sono colpiti e rovesciati. La pelle rimane illesa. In Giappone amano l’eleganza della forma.
Per le strade di Tokio portano i detenuti dal carcere di Icigaj in tribunale. Hanno abiti color rosa tenue. Sulla testa portano canestri di paglia, affinchè il loro viso cupo non scalfisca nei passanti la sensazione di eleganza. Nessuno in Giappone vede il viso dei detenuti. I giudici sono mascherati. Hanno abiti medievali, variopinti e sfarzosi. Tutto è pervaso dalla tradizione. Nella pratica della polizia giapponese, si è conservato l’antico spirito dell’epoca di Tokugava: iniettano al detenuto di acqua fredda nelle narici, lo stirano su un telaio, gli strappano delle unghie e, come concessione della civiltà moderna, lo pestano con manganelli di gomma.
La pena di morte in Giappone è stata modernizzata, ma nello spirito nazionale. La pena di morte in Giappone si chiama “kosjudai”. Traduzione letterale: “patibolo per lo schiacciamento della testa”. Portano il condannato a una scala. Il monaco buddista mormora le preghiere. Il dottore tasta il polso al condannato. Il dottore annuisce con soddisfazione: “Sano. Può morire.” Il condannato sale su per i gradini. In uno degli scalini egli cade improvvisamente. La testa rimane al livello del gradino. Le pareti iniziano lentamente ad avvicinarsi. Esse stritolano la testa dell’uomo. Un giornalista giapponese poco tempo fa scriveva che l’uccisione di un uomo col metodo del “kosiudai” procura all’ucciso un indicibile piacere.
Ai comunisti condannati che riescono ad evitare il “kosiudai”, tocca il carcere a vita. Questo è lo stesso una pena capitale, soltanto allungata di dieci anni. Il 99% dei detenuti muore di tubercolosi.
Questa è la situazione in Asia.
Ecco qual è quella in Europa.
In Inghilterra, dove picchiano perfino gli scolari, la pena corporale è prevista dal codice penale. Questo non lo nascondono. Nella statistica penale inglese troviamo un elenco dettagliato dei pestaggi realizzati nel 1929 nelle terre del Regno Unito, con l’indicazione del carcere, della quantità dei colpi, degli attrezzi del lavoro: la verga o il gatto a nove code, e con l’annotazione se la pena è approvata dal Ministero degli Interni. Nel carcere inglese succede in questo modo, che nella cella del detenuto entra il secondino e dice: “La scorsa settimana vi abbiamo frustato, Sir”. “Sì”, dice il prigioniero e sobbalza. “Il Ministero degli Interni non ha approvato questa fustigazione, Sir”, dice il secondino, si inchina ed esce.
In India la legge fissa il limite della fustigazione: trenta colpi di frusta o di bambù. Questo riguarda soltanto gli indù.
Per frustare un inglese è necessario portarlo nella metropoli. Là i giuristi inglesi danno l’approvazione: la quantità dei colpi è minima. Ma là frustano con il gatto a nove code. Un colpo del gatto a nove code è pari a nove colpi di una normale frusta.
In tutti i paesi borghesi picchiano i detenuti. Quei paesi borghesi, nei quali picchiano i detenuti senza una legge scritta, hanno presentato alla Società delle Nazioni una protesta contro l’Inghilterra, dove puniscono i detenuti sulle basi di una legge scritta. La Società delle Nazioni, definita l’istituzione più umanitaria del nostro tempo, ha esaminato questa protesta. Ecco la sua dichiarazione:
“Se in alcuni stati sono ammesse le pene corporali, la loro esecuzione deve essere regolata dalla legge (articolo 39-ja “della Regole del regime per il detenuto”, presentate nei rapporti della Società delle Nazioni nel 1930).
La legge inglese è stata fatta da quello stesso materiale dal quale sono stati fatti i manganelli di gomma che accompagnano l’applicazione della legge. In Inghilterra, tutt’ora, applicano le leggi emanate nel medioevo.
Quando occorre condannare in fretta un comunista e non c’è una legge che faccia al caso, si rivolgono al passato, si insinuano negli archivi sanguinari dei tempi di Pitt, Cromwell!!!, Giovanni Senza Terra.
Nel 1926 i membri del Comitato Centrale del Partito comunista inglese furono condannati secondo una legge del 1798. Nel 1932 in base alla stessa legge deportarono all’ergastolo i comunisti Elisson, Sheffer e Peterson.
Ovunque tintinnano le catene. In Inghilterra esse hanno la denominazione accademica di “misure di sicurezza”. Nella statistica delle prigioni spagnola del 1927, abbiamo trovato il numero a tre cifre 557. Ognuno dei 557 detenuti è legato da un sistema di catene che circonda la vita come una cintura e si unisce alle gambe. Lo portano a vita. Le catene impediscono di togliere il vestito. Gli incatenati non si spogliano mai.
Nell’India Britannica, nelle Isole Andamane, su una popolazione di poco più di 7.000 persone, 5.500 sono state condannate all’ergastolo.
Un giurista tedesco, il professor Folgen, entrò nella cella del detenuto n. 4922. Il numero si riferisce all’uomo, non alla cella. Nessuno conosce il nome dell’uomo. Egli stesso l’ha dimenticato. Egli è condannato alla detenzione per 99 anni. Questo era nella prigione di Sant’Ada, nello stato del Nuovo Messico.
Nel 1876 un giovane di nome Pomroi uccise un compagno. Lo misero in cella d’isolamento. Aveva 14 anni. Dopo due anni cominciava a fare i primi pensieri sulle donne. Dopo tre anni gli spuntò la prima barba. Dopo quattro anni, gli cambiarono vestito, era cresciuto. Non sapeva niente delle guerre, delle rivoluzioni, delle automobili, dei cinematografi, dell’aviazione, della radio. Poi diventò vecchio e morì. Lo seppellirono nel 1932 nel cimitero della prigione. Aveva vissuto 56 anni in isolamento.
Il viaggiatore che ha visitato nel 1928 il carcere newyorkese di Sing-Sing, osservava le situazioni dei detenuti. Egli scrive sul suo libro: “ Incontravamo ripetutamente cognomi accanto a cui stava l’anno d’entrata 1880. Nell’anno attuale queste persone contano già il 48°anno della loro disperata permanenza in prigione.”
La maggioranza dei carcerati a vita nelle carceri borghesi, finisce con l’impazzire. La parola “mai” porta alla follia. Poi, come dice il direttore di una delle carceri, per il detenuto a vita comincia il secondo periodo. Il periodo della speranza. Egli è in via di guarigione. Egli spera. Spera nel corso di 15-20 anni. Egli si comporta per tutto questo tempo in modo irreprensibile. Egli è già un uomo adulto o un anziano. Ed ecco che presenta una supplica di grazia. Arriva una lettera di risposta. In essa è scritta una sola parola: “Negata”. Il detenuto impazzisce di nuovo. Muore da vecchio pazzo.
Tale è il percorso del detenuto a vita descritto dal professore tedesco Lipmann, che esaminò più di 2.000 carcerati a vita.
Quando il tribunale borghese non trova possibilità di giustiziare un comunista, cerca di finirlo con il carcere a vita. Anche se questo è un bambino. Un ragazzino dodicenne vendeva per le strade di Reims un giornale antimilitarista. Il tribunale condannò il ragazzino a 9 anni di carcere. Suo padre era un comunista.
Dal 1926 al 1930, 286 comunisti italiani ebbero 20 anni di prigione e 158 ebbero 30 anni.
Inoltre, la disoccupazione che iperversa fuori dalle mura del carcere borghese, penetra anche dentro di esse. I detenuti non possono competere con i liberi.
In Prussia, le persone detenute per un totale di 30.091 anni, 14.000 anni li hanno trascorsi senza compiere alcun tipo di lavoro. 140 secoli di ozio! In Francia, per ogni centinaio di detenuti, 28 uomini non lavorano e la paga di quelli che lavorano è pari a 4 copechi al giorno.
In Polonia 203 carceri sono del tutto senza spazi adibiti al lavoro. In Italia soltanto il 22% dei detenuti sono occupati in un qualche lavoro. Cosa fanno allora essi? Passeggiano, forse? Sì, passeggiano. Ecco il portone di una di queste carceri. I detenuti camminano in fila. La distanza tra l’uno e l’altro è di cinque passi. Il mondo consiste nel cielo sopra la testa, nelle mura intorno a loro e nella schiena davanti agli occhi. Ma è vietato guardare sia in alto che in basso. Guarda solo davanti la schiena del compagno. E’ vietato parlare. Mezz’ora è passata: marcia in cella!
Non ci sono biblioteche. Niente accessori per scrivere.
Tutte le prigioni del mondo borghese sono simili.
Ci sono leggere variazioni. In Italia la razione del carcere è di 600 grammi di pane e zuppa. In Polonia, piselli marci e acqua putrida. Tuttavia, offrono generosamente la religione. Però, nelle chiese delle carceri ai detenuti è vietato bisbigliare le preghiere, affinché, col pretesto di bisbigliare le preghiere non si parlino.
In Ungheria!!! arrestarono una scrittrice tedesca, Isolda Reuter. Atto imprudente! Essa era una scrittrice borghese. Apparteneva al ceto privilegiato della società e raccontò tutto quello che le era accaduto in prigione. La incatenarono mani e piedi, poi le fecero passare tra le braccia e le ginocchia un bastone di ferro e la colpirono sulle piante dei piedi nudi con un frustino di gomma.
E’ facile immaginare cosa facessero alle persone non privilegiate: agli operai, ai comunisti!
In Jugoslavia in due anni di dittatura fascista sono stati sottoposti a torture 932 rivoluzionari. La Grecia dà le proprie varianti. Qui legano le gambe dell’interrogato con cinghie non conciate. Ad esse è collegata una leva. Si gira la leva e le cinghie, solcano il corpo fino alle ossa. La Romania aggiunge ai metodi dell’inquisizione spagnola quelli realizzati dalla civilizzazione: ipnosi, corrente elettrica.
In un noto carcere borghese esistono camere di tortura. Il detenuto viene fissato con le cinghie ad un lettino. Egli non può muoversi. Dispositivi speciali sulla testa e sulle gambe stirano il corpo. Il detenuto viene lasciato in questa posizione. Rimane così per giorni, settimane. Gradualmente si imputridisce.
Si spiega, allora, l’esclamazione di Terracini, il quale dopo la condanna, gridò in faccia ai giudici: “Voi non avete il coraggio di condannarci apertamente a morte, ma vi è chiaro che mandandoci in isolamento nei sotterranei, ci condannate a morte!”.
Sì, anche questa è morte, ma distribuita negli anni. Il numero calcolato dei deportati in Guyana fino al 1875 è di 21.248 uomini. E’ stato calcolato anche il numero di quelli che dalla Guiana sono ritornati: 3.637 uomini. Il resto: 17.611 uomini. Essi sono sotto terra.
Ecco l’isola di Lipari nel Mar Mediterraneo. E’ una piccola isola vulcanica dalla quale non si può fuggire. Qui portano i politici. In un anno hanno portato qui 500 politici.
Vediamo cosa ne è stato di loro.
Uno è stato sgozzato con un colpo di baionetta alla gola.
Due sono stati fucilati.
Quattro si sono suicidati.
37 sono impazziti.
43 sono stati feriti dai gendarmi.
107 sono stati condotti nella galera locale, il terribile carcere di Lipari.
118 si sono ammalati di tisi.
Passiamo all’Indonesia. Essa è una colonia olandese. Tanmalako, un autore!!! aborigeno, scrive:
“Se i detenuti europei possono ancora vantarsi di cibo che appartenga all’alimentazione umana, i detenuti indigeni ricevono del vitto che il borghese europeo si vergognerebbe di dare al suo cane. Se i detenuti europei possono vantarsi di ricevere celle (sebbene anch’esse molto piccole), e tuttavia con un letto (sebbene non morbido), e con la cortina per proteggersi dalle zanzare anofèle, ai detenuti indigeni non viene dato niente di tutto questo e vengono chiusi in minuscole celle da 10 fino a 20 uomini, i quali rimangono vittime della malaria e dell’omosessualità…”
Le persone benestanti di rado finiscono in prigione.
Dalla prigione ci si può fare esentare pagando.
Nel 1931, 1.833 giovani inglesi e 119 ragazze inglesi finirono in carcere. Il 50% di essi ha ricevuto la detenzione in carcere al posto di una multa. Essi non potevano permettersi di pagare una multa. Li mandarono in carcere, li incatenarono alle mani con i recidivi incalliti.
In Italia, secondo il codice del 1930, è permesso pagare una multa al posto di una detenzione di 3-4 anni. La multa è pari a 5 rubli al giorno. Chi possiede ricchezze cospicue si può permettere di condurre una vita criminale.
Perfino in carcere, se si ha del denaro, ci si può sistemare con le comodità. Nelle carceri francesi si può avere una bella stanza (essa si chiama “cellule de pistole”) per 2 franchi e mezzo al giorno, con riscaldamento e illuminazione, e per 1 franco e mezzo, senza.
Tutta la forza della vendicatività classista della borghesia, si scaglia sui poveri, sui lavoratori. Negli stati borghesi che, boriosamente, si chiamano “di diritto”, la sorte dell’operaio è l’effettiva assenza di diritti. Il diritto è privilegio degli abbienti, nel potere o nel carcere: è uguale.
La vecchia galera zarista e la deportazione, applicavano ampliamente ai detenuti un’oppressione fisica e morale.
La stessa crudeltà si usava ai detenuti nelle galere, così chiamate “centrali”, ad Orlovsk, Jaroslavsk ed altre.
Ecco come là accoglievano i detenuti, secondo i ricordi degli ex-ergastolani politici.
“Gli ergastolani venivano raggruppati e, prima di tutto, li portavano nei locali del bagno. Viene dato il comando di spogliarsi nudi, dopodiché li fanno correre fra due file, dove vi aspettano 60-70 secondini. Molti escono dalle file con le costole rotte, con le membra distrutte, con i polmoni e il fegato compromessi, con i visi deturpati, con i denti rotti, ecc., mentre alcuni restano semplicemente sdraiati nel posto del macello… A quelli che hanno perso i sensi versano addosso acqua fredda e li picchiano di nuovo, senza pietà, con maestria… Li alzano e li buttano sul pavimento. Il sangue esce a fiotti, di spruzzi di sangue sono coperte le pareti, esso si vede ovunque…”
Poi seguiva la “lezione della galera”:
“… Bogomolov, senza dire una parola, mi prende per il collo, mi mette nel centro della cella, sempre in silenzio, come se si trattasse una cosa inanimata; con la punta dello stivale mi colpisce le gambe e dice:
“Ecco qui e così, sull’attenti, devi stare quando qualcuno entra da te… Lo stesso, sia all’appello mattutino che a quello serale… Lo stesso, ogni volta, quando il secondino guarderà nello spioncino… E soltanto quando l’appello sarà terminato e te rimarrai solo o quando lo spioncino si chiuderà, te potrai cambiare posto. Chiaro?… Quando entrerò io o un capo, o un assistente o un signor superiore e ti saluteranno, tu devi rispondere forte e chiaro: “Salute, signor capo”, o anche “Signor capo” o “Vostra signoria”. Solo, non devi strascicare le parole, ma rispondere velocemente così: “Salvesignore” o “Salvevossignoria…”. Ma ricorda anche… le pareti, il davanzale, il pavimento, tutto deve brillare come uno specchio… Il vasellame di rame, come il fuoco… Da nessuna parte deve esserci polvere… Nel bugliolo e sotto il bugliolo, deve essere pulito e in ordine… A tutte le domande rispondi così: “Signorsì… Signornò… Ubbidisco”. E che non ci siano nessun “Sì” o “No”… Chiaro?
Dopo una breve pausa, Bogomolov aggiunse:
“Il primo mese sarai senza libri, senza corrispondenza, senza copie… Poi vedremo… Ma se non ti comporterai così, allora avrai la frusta…”
Il mantenimento della pulizia della cella diventava una nuova tortura per i detenuti:
“Ti avevo detto che il pavimento deve splendere come uno specchio”, di nuovo urlò il superiore. “Questo sarebbe il pavimento? Prendi lo strofinaccio. Strofina!”
Io afferro dalla seggetta del bugliolo un paio di strofinacci, mi accovaccio e con tutte le forze strofino il pavimento. Ma un colpo di chiavi sulla schiena improvvisamente interruppe il mio lavoro. “Non accovacciato, in ginocchio!”, gridò Bogomolov.
La lezione continua con tale rabbiosa fretta che non riesci nemmeno a vuotare il fetido vaso, né prendere la brocca dell’acqua per bere…Lavarsi nel waterclòset? Ti ammazzano per questo, sebbene siano stati costruiti dei bei lavandini, ma di lavarsi nella cella nessuno osa.”
Frustavano con qualsiasi pretesto e, del tutto, senza motivo:
Vaisman fu frustato, perché non rispose “Salve”, Kichtenko per offesa al secondino.
Einik si impiccò, perché soffriva di attacchi epilettici, i dottori lo presero per un simulatore e Druzinin promise di fustigarlo se l’attacco si fosse ripetuto.
Vidnev soffriva di un disturbo psichico, Druzinin lo picchiò e inoltre, convocò un raduno, in presenza del quale, frustò un detenuto e poi toccò anche a lui.
Druzinin comandò: “Comincia”. Le verghe fischiarono ma non colpirono… Poi lo sollevò da terra, lo coprì di ingiurie e disse: “Se ti ricapita un attacco, ti frusterò”.
Puniscono per un lavoro fatto lentamente, e quando rispondono che farlo più in fretta è impossibile, Druzinin grida: “Non m’interessa”, “Ti frusto a morte”.
“L’ergastolano a tempo indeterminato Mel’nikov, non del tutto sano di mente, cominciò a gridare qualcosa dalla sua cella d’isolamento: immediatamente lo picchiarono e lo trascinarono alla fustigazione. Alle grida di Mel’nikov gli altri si misero a battere contro le porte. Per questo rumore frustarono Scarapov, Novikov, Uzikov, Suev e anche altri compagni. 50 Uomini furono messi in cella di rigore per 10 o 20 giorni!!!.”
Le stesse cure mediche si trasformavano cinicamente in scherno dei detenuti, oppure in un’aperta serie di botte. Il dottore nella galera zarista era l’aiutante del torturatore.
“Dell’aiuto medico noi eravamo, di fatto, privati. In verità, il dottore nel carcere c’era. Il nome di questo tiranno della medicina, se non sbaglio a ricordare, è Suckov. Egli nelle celle, dai malati, non ci andava. Per quanto gravemente uno fosse malato, deve scendere dal 4° piano al piano terra, dove ad un tavolo, circondato dai secondini, siede il dottore.
“Che cosa ti fa male?”
Il malato si lamenta per la tosse, l’asfissia, l’emottisi, le sudate notturne.
“Vuoi simulare la tisi? Bene, vediamo.”
Egli ascolta disattento attraverso la camicia. Ed era un caso frequente che egli, rivolgendosi al superiore, dicesse:
“Simulatore”
Per quello si finiva in cella di rigore.
“Se qualcuno di loro (di quelli a lungo termine) si ammalava, il dottore neanche andava da lui e, qualsiasi malattia avesse, non lo portavano in ospedale. Così essi morivano senza assistenza medica.”
“Il dottore picchiava di propria mano i detenuti, per non parlare delle imprecazioni triviali che ogni minuto uscivano dalla sua bocca…”
“Il battere dei polmoni veniva praticato come effettivo mezzo radicale per sbarazzarsi dei detenuti particolarmente seccanti. Il dottore del carcere registrava in questi casi, “tubercolosi”, e si mascherava, così, il delitto”.
Ecco come descrive una delle detenute politiche la cella del carcere di Butyrka, dove si trovava nel 1908:
“Piccole finestre a torre, basso soffitto ad arco, pareti storte, umidità che non si asciugava nemmeno in estate, terribile aria viziata, strettezza… Donne, giovani ed anziane, sbarrate qui per molti anni, per sempre. Oltre allo sporco lavoro, superiore alle loro forze, non c’era altro che riempisse la loro vita…”
E ancora:
“ Da qualche parte, da dietro, echeggiò furiosamente: “Manda questi figli di puttana nella palude!”… Sotto i feroci colpi dei calci di fucile, un gruppo in transito ripiegò a sinistra, nella melmosa palude, coperta d’erba. Qui, ogni passo, richiedeva uno sforzo. Le gambe, a volte, sprofondavano nel fango nero fino al ginocchio, si sfilavano e si impantanavano le scarpe di cuoio, per la perdita delle quali al detenuto, nel carcere, toccava forse anche la frusta. Le persone cadevano, si trascinavano per le gobbe del terreno, e i colpi arrivavano e arrivavano… I soldati erano divisi in due gruppi: un gruppo riposava, andava per la strada, andava sui carri; gli altri correvano accanto a loro per la palude e picchiavano, senza risparmiare le forze, picchiavano con i calci dei fucili sulla schiena, sul collo, sulle gambe… A tutte le suppliche, preghiere, persuasioni delle donne, i soldati rispondevano bruscamente e di nuovo alzavano il calcio del fucile. In particolare ricordo la figura dell’anziano, alto tartaro; quello, non si sa perché, lo picchiavano più di tutti. Dopo ogni colpo nella schiena, egli cadeva supino con un breve tossicchiare; lo rialzavano con un colpo di stivale in faccia ed egli di nuovo correva e di nuovo cadeva. Molti erano insanguinati, alcuni sputavano sangue. Alla fine, i soldati erano sfiniti. Di nuovo riprendemmo la strada, e poco dopo fu fatta la sosta. Noi ci rinfrescammo i visi, bevemmo e ci sdraiammo per terra. Il secondo pezzo di cammino si svolse lentamente, ci fermammo ad ogni ora. Quelli picchiati, stavano seduti o sdraiati sui carri. I soldati di guardia tacevano e non ci guardavano e, l’uno con l’altro, provavano, chiaramente, una pesante fiacchezza dopo la furia. Alla fine comparve Gornji Serentuj e dopo un’ora entrammo dal portone largamente spalancato del carcere nel cortile, dove ad un tavolo sedevano, pronti per il ricevimento, i capi superiori del carcere. Non so in quale forma fu presentato il lavoro delle guardie al capo superiore, ma alla dichiarazione del gruppo sul pestaggio, seguiva soltanto un minaccioso richiamo. Alcuni uomini furono velocemente portati in ospedale.”
La borghese Finlandia, una volta colonia dell’impero russo, ha mantenuto e potenziato il sistema zarista di oppressione dei detenuti.
Non lontano dalla Carelia sovietica, nelle camere finlandesi di tortura scorre il sangue degli operai rivoluzionari.
La Finlandia. Il paese dei laghi e della foresta. Una lingua risuona su entrambi i lati del confine.
Nel carcere di Ekanas ci sono 500 prigionieri politici. La maggioranza è a tempo indeterminato. Essi lentamente muoiono. Le grigie prigioni di Ekanas: focolaio della tubercolosi. Il cibo qui raramente è commestibile. Se sei un avvocato, un fabbro, un cocchiere o un calzolaio, è uguale: pialla! Sega! Ti è stata ordinata una norma. Se sei forte o debole, è uguale: sega! Se non hai eseguito la norma entro il termine, finirai in carcere. Quattro giorni a pane e acqua. Se non l’hai eseguita per la seconda volta: due settimane. Se non sei riuscito a fabbricare piallando la norma, nemmeno alla terza volta: carcere. A tempo indeterminato. Tutti i carceri qui sono stracolmi. Le norme sono tali che è impossibile eseguirle entro il termine. Sono pochi quelli che escono dal carcere finlandese. Semmai solo per andare al cimitero. Makslin, Kujalla, Kininas, Vuaris, Kokoo, Jarvinen, Ghieminen: ecco i nomi dei comunisti uccisi nelle carceri negli ultimi tempi.
Una volta, nel paese di Rovanjemi si incendiarono i magazzini di legname. Questo accadeva nell’agosto 1930. Il servizio di guardia arrestò i primi operai che riuscì a beccare. Essi non erano colpevoli dell’incendio del magazzino. Ma di loro si sapeva che erano collegati con le organizzazioni rivoluzionarie. Nella notte, uno degli abitanti di Rovanjemi uscì nel bosco a spaccare dei rami. Esso vide una grande colonna di fumo alzarsi sopra il bosco. Egli pensò: hanno appiccato un incendio? Si avviò verso il fumo. Presto sentì delle voci e dei lamenti. Facendosi con cautela strada con le mani tra gli arbusti, andò verso le voci. Ecco cosa vedeva. Un grande rogo. Presso il rogo si dibatte un uomo legato. Egli è nudo. Il fuoco lambisce il suo corpo. Grida. Le altre persone, con dei grandi bastoni, non gli permettono di ritirarsi dal fuoco. Dopo aver guardato attentamente, l’abitante di Rovanjemi riconobbe nelle persone le guardie del posto, e nell’uomo nudo, Kumpumjaki, uno degli operai arrestati.
Aveva paura e voleva andarsene. Ma ebbe paura di tradirsi con un movimento. Rimase e vide tutto quello che accadde dopo. Vedeva come frustavano Kumpumjaki con delle verghe e, di nuovo, bruciavano. Ma l’operaio gridava: “Non sono io…”. Allora le guardie, dopo essersi consultate, portarono Kumpumjaki al formicaio. Ne uscì una moltitudine di formiche che si arrampicavano sul corpo affumicato dell’operaio e lo pizzicavano. Kumpumjaki emise un gemito: “Va bene! Sono io!”. Lo slegarono, gli porsero carta e matita. Egli sottoscrisse: “Confessione”.
Il giorno seguente, nell’ufficio del lensman, trascinarono dentro la sedicenne Elena Lepjanen. La spogliarono completamente e la legarono ad una panca. Portarono una verga. Quattro volte ella, sotto la frusta, perse i sensi. La rianimavano e la colpivano di nuovo. Essa sottoscrisse: “Confessione”.
L’avvocato Kontunek assunse la difesa di queste persone innocenti. Allora attirarono anche lui con una trappola nell’ufficio del lensman e lo sottoposero a torture. Sotto la frusta egli sottoscrisse la rinuncia alla difesa degli accusati di Rovanjemi.
Tale Finlandia è un paese silenzioso. Granito, laghi, bosco.
Nella Germania fascista c’è tutto quello che c’è in tutte le carceri borghesi. Fame, catene, religione, fruste.
Tuttavia, là questo esiste in tali misure e livelli, come in nessun altro posto al mondo. Inoltre, in Germania ci sono i campi di concentramento. Noi daremo un’occhiata anche là. La Germania fascista si distingue dagli altri paesi per il fatto che, sotto la frusta e le atrocità, annovera una base filosofica. Così, in Germania si percuote. Ma c’è anche un regolamento della punizione. C’è la tortura. Ma c’è anche un orario delle torture. La Germania fascista, il paese dei filosofi, dai tempi dell’arrivo di Hitler, crea un’intera serie di teorie delle percosse e delle uccisioni.
Il teoretico fascista, il giurista Kerrl, dichiarò apertamente:
“Fino a questo momento la privazione della libertà si realizzava in tale modo che il tenore di vita del detenuto era di gran lunga più alto del tenore di vita del disoccupato o del piccolo contadino. Questa condizione deve essere modificata e la nuova legge pone fine a tutto ciò. L’ordinanza è redatta adesso in tal modo, che il tenore di vita del detenuto si mantenga più basso di quello del disoccupato. Questo è necessario anche al fine di ridurre la criminalità nel futuro. Lo stesso deve diventare chiaro per il detenuto, affinché mai egli sia di nuovo preso dal desiderio di tornare in carcere. Il detenuto deve convincersi del fatto che il carcere non è un albergo gratuito.”
In questo modo la politica di correzione è completamente bandita dal sistema punitivo della Germania fascista.
La frusta diventò il mezzo principale del sistema tedesco di “correzione dei delinquenti”.
“La semplice appartenenza al partito social-democratico si punisce con 30 colpi di verga di resina sul corpo nudo; per l’appartenenza al partito comunista, come regola generale, toccano 40 colpi. Se il punito adempiva una funzione politica o sindacale, allora la misura della punizione cresce.”
La pratica segue immediatamente la teoria.
Un seminterrato buio. In mezzo, un cavalletto di legno. Qui è stato versato tanto sangue che si sente l’odore da tutte le parti. L’anziano operaio l’hanno gettato sul cavalletto. La sua colpa è quella di aver organizzato una mensa per i disoccupati. Lo frustano con verghe d’acciaio. Egli deve contare i colpi a voce alta. Al terzo perde la voce. Al quinto la pelle si spacca. Il sangue scorre.
Poi ci sono le torture morali. Le false fucilazioni. Le pallottole che fischiano sopra l’orecchio.
A volte, purgano i detenuti con l’olio di ricino. Durante la flagellazione essi defecano. Il fine è di sprofondare l’uomo nell’abisso della vergogna, sfinire moralmente, distruggere la volontà.
Sì, questo è fatto con intento. Questo è stato previsto. Questo è presente nell’orario delle torture.
“L’elettricista telegrafico Grotegenne non era iscritto a nessun partito. Egli era un membro della bandiera repubblicana. Il lunedì 27 marzo da Grotegenne arrivarono le SA e gli ordinarono di seguirli nella loro caserma. Sua moglie pensò che questa solita prova obbligasse ad aderire al partito dei nazional-socialisti e consigliò al marito di fare velocemente domanda di adesione e di non uscire di casa.
Ma Grotegenne andò con i fascisti in caserma. Passarono alcune ore. Egli non ritornava. La moglie decise allora di andare da lui. Davanti alla caserma delle SA c’era un fascista di nome Meier. La signora Grotegenne s’inginocchiò davanti a lui, piangeva e pregava di rilasciare il marito. In quel momento, gettarono fuori, nella strada, il corpo di Grotegenne. Egli era ridotto in un pezzo di carne insanguinato. Alcuni uomini portarono il corpo della vittima a casa. Poiché sospettavano l’avvelenamento, gli versarono in bocca del latte. Egli vomitò.
La moglie, dopo avergli asciugato la schiuma dalla bocca, notò che il suo fazzoletto da naso era ridotto in brandelli dall’acido contenuto nel vomito. Grotegenne di tanto in tanto era abbastanza in sé da poter raccontare come lo tormentarono. Lo spogliarono e per tre ore di seguito lo picchiarono con delle verghe d’acciaio; negli intervalli lo obbligavano ad asciugare il sangue dal pavimento col proprio vestito.
Mentre egli giaceva privo di sensi, stringendo i denti, i fascisti cercarono di versargli in bocca della soda caustica. Siccome questo subito non gli riuscì, allora gli aprirono la bocca con la forza; nello stesso momento gli staccarono una parte del labbro superiore.
Grotegenne morì fra terribili sofferenze la sera del 29 aprile. Il cadavere fu sottoposto ad autopsia giudiziaria. Come causa di morte constatarono un’emorragia cerebrale e ustioni della bocca, dell’esofago, dello stomaco.
La procura si occupò di questa faccenda, ma fino a questo momento a nessuno dei colpevoli fu fatta causa.
“All’inizio di marzo fu messo in arresto Fritz Humbert di Heidenau. Lo condannarono, perché “aveva sotterrato provviste di guerra e armi”. Lo portarono nella fortezza di Koenigstein, da lì nel campo di concentramento di Hohenstein. Là lo legarono a cinghie di cuoio e lo sottoposero a torture. Le torture da lui subite, furono talmente crudeli che morì. Alla moglie comunicarono che egli era morto a causa di un’emorragia allo stomaco e all’intestino.
Gli operai dell’impresa, che si trovavano a Heidenau, raccolsero i soldi e ottennero il trasporto del corpo a Heidenau. Questo fu autorizzato, ma con la condizione necessaria, affinché non aprissero la bara. Gli operai, tuttavia, non rispettarono tale disposizione.
Nessuno dei testimoni dimenticherà mai l’immagine che gli si presentò. Il viso sembrava letteralmente frantumato in pezzi. Probabilmente la stessa lingua non c’era. Sulle mani si vedevano le tracce di pesanti catene, i glutei apparivano come un pezzo di carne tagliuzzato. L’ano era completamente tappato con un cencio per trattenere l’emorragia, la spina dorsale era spezzata, gli organi sessuali lacerati, la coscia destra rotta, l’addome era sfondato, così che gli intestini uscivano fuori. Le labbra morse testimoniavano quali terribili sofferenze avesse subito Humbert.
Quando intorno al corpo, con orrore, si riunì la folla di operai sdegnati e sconvolti dall’orrore, le SA di nuovo portarono via il cadavere. A Heilenau arrivò il boia Killinger in persona con l’intero centro direttivo di poliziotti e dottori. Fu organizzata una perquisizione generale negli appartamenti degli operai per confiscare macchine fotografiche e lastre. Ai testimoni, sotto minaccia delle più terribili pene, fu ordinato di non raccontare nulla. Quelli che erano presenti all’esame del corpo, furono convocati separatamente e ricevettero l’ammonimento di “tenere la bocca chiusa”.
Il venerdì 28 aprile, si fecero i funerali. Circa 3.000 operai ed operaie erano presenti per dare l’ultimo saluto al defunto. Tutte le strade attigue erano circondate dalle SA che tenevano le armi pronte all’uso. Quando la processione arrivò ai cancelli del cimitero, arrivarono i fascisti e la dispersero.
Nel cimitero lasciarono entrare soltanto i familiari. Alla tomba tenne il discorso il sacerdote che, dimostrativamente, aveva indossato il distintivo fascista.
“Il 26 marzo il comunista Edom a Koenigsberg, in Robertastrasse n. 6, fu prelevato dall’appartamento alla mezzanotte. Era noto che egli si trovasse in rapporti amichevoli con il deputato comunista del Reichstag Shutz; lo picchiarono per due ore così disumanamente che egli, essendosi confuso, impazzito dal dolore, non resse e in stato di semi-incoscienza, rivelò dove si trovava Shutz.
Alle 2 e 30 del mattino nella stessa caserma trascinarono Shutz e là, per 12 ore, lo picchiarono, lo ferirono e calpestarono, finchè egli non si trasformò in una massa completamente informe, impossibile da identificare. La sera del 29 marzo Sciutz morì all’ospedale. Nel certificato di morte c’era scritto: “per collasso cardiaco”.
Il 3 aprile sotterrarono Shutz come un animale. Nessun giornale tedesco aveva informato della sua morte. Con le minacce avevano messo a tacere i dottori e gli infermieri.
La moglie del defunto, durante quel periodo, era tenuta sotto custodia. Il figlio dodicenne fu costretto ad avvicinarsi al corpo deformato del padre, prima che fosse sotterrato, e uno dei fascisti gli disse: “Questo è quello che succederà a te se seguirai le sue orme…”
Ci limiteremo per ora a questi casi, tra altri mille noti al mondo.
Allo stesso tempo, come molti assassini professionisti, i legislatori fascisti sono teneramente sentimentali. Il nuovo codice penale punisce tra gli altri “reati”:
“la tortura degli animali…”
La rivista “Preussische Justiz”, in mezzo al lamento degli operai torturati, si stampa sul viso di boia l’espressione sdolcinata e devota del bigotto:
“Proprio la salvaguardia degli animali è una faccenda sentita dai nazional-socialisti, i quali in ogni animale vedono l’opera di Dio…”
Ora la vivisezione degli animali in Germania è proibita. Versando ogni giorno il sangue di centinaia di lavoratori, il fascismo tedesco intercede per le cavie e i conigli.
“Le prigioni a Sonnenberg e a Fulsbuettel furono chiuse già qualche anno fa, perché erano prigioni medievali, completamente antigieniche. Là non osavano mettere nemmeno i criminali che avevano compiuto pesanti delitti comuni. A Fyl’sbjutel non ci sono bagni, né fognature. La permanenza in questa galera, soprattutto durante i periodi caldi, diventa una sofferenza insopportabile. Queste prigioni adesso sono state trasformate dal governo di Hitler in campi di concentramento…”
“Per tutta la notte cacciano dalle baracche e costringono a fare esercizi di ginnastica, e sei fascisti picchiano disumanamente uno dei compagni con verghe di resina, minacciandolo con un revolver. Essi picchiano soltanto quello e aspettano finché non gli sia opposta resistenza; allora sicuramente ammazzerebbero il compagno. E poiché egli non si faceva provocare, allora essi lo picchiarono ancora una volta crudelmente. A questo compagno fu annunciato: “Voi potete, certamente, lamentarvi, ma questo è del tutto inutile, e noi per giunta possiamo perfino carezzarvi col sacchetto pieno di sabbia…”
Inoltre, c’era il lavoro educativo: ogni mattina, “l’ora della veglia nazionale”, durante la quale in coro cantano canzoni patriottiche. Due volte alla settimana, maccheroni a forma di “svastica”, come educazione nazionale. I maccheroni erano ovviamente insufficienti”.
Lavoro?
Ecco come lo descrive uno del lager di Oranienburg:
“Il lavoro, se questo lo si può chiamare così, è la più grande assurdità, alla quale si possono sottoporre sia le guardie, sia i detenuti. Tre giovani operai costringono sei dei loro compagni in disoccupazione a sarchiare l’erba e con la massima velocità. Sei uomini vestiti di stracci si arrampicano per le pietre, scavano gli steli dell’erbetta primaverile, intrufolandosi tra le pietre, dissotterrano minuscole radici, puliscono un pezzo di immondizia e accuratamente lo conficcano di nuovo nella fessura della strada. Non ci sono attrezzi. E’ sottinteso che l’erba da fastidio a nessuno e che non ha nessun senso sarchiarla e dissotterrare le radici.
Dalla fabbrica versano insistentemente l’acqua. Dodici uomini si fanno in quattro per pulire il vecchio edificio. Se esso non splenderà come un palazzo di marmo, sarà colpa loro e li schederanno per inidoneità personale. Essi devono togliere ogni granello di sabbia, ogni scheggia. Sul muro della fabbrica faceva mostra di sé la stella sovietica dipinta dagli operai; bisogna toglierla, si dovesse per questo demolire tutta la parete. Ma qui tutto è completamente insensato, un assurdo spreco di forze; non un lavoro, ma un’occupazione.
Di gran lunga peggio è andare a fare un altro lavoro. Estirpare il bosco vicino. I detenuti vengono spediti nel bosco su un convoglio rinforzato. Essi devono estirpare dalla terra enormi tronchi con le radici. I fascisti spronano le persone con le espressioni: “vecchio maiale”, “maiale rosso”, “vecchia frittata”. Queste espressioni sono prese dal gergo dell’armata imperiale, ma divennero appena più forti e ciniche…”
Quanti uomini ci sono nei campi di concentramento della Germania fascista?
Non meno di 60.000 detenuti politici. Questa cifra cresce ogni giorno. E ogni giorno diminuisce se ricordiamo le numerose “uccisioni per tentativo di evasione” e le sanguinose punizioni simili a quelle che avvengono nelle carceri fasciste.
Così appaiono i campi di concentramento e le carceri istituiti dalla borghesia.
Che cosa attende quelle persone che furono arrestate nel 1931 nell’U.R.S.S. e mandate nei campi di lavoro sovietici? Di questo racconteremo nel prossimo capitolo.