Belomor5.

Sono arrivati a Samara. Le barriere sono state posizionate contro gli slittamenti. Il ponte sulla Volga, la sbarra macchiata dai passeri, il carro coperto di una kolchoziana tedesca. La figlia dello scambista, con una piccola pelliccia rovesciata, agita le mani dietro al treno che passa.
Ad una delle stazioni Musaev e Kurdov vanno con la scorta a prendere l’acqua calda. Il vento piega il filo di vapore che esce dal bollitore.
È cominciato il bosco. Passa un tagliaboschi dai grandi occhi chiari, quasi bianchicci, con un’ascia ficcata nel gambale. Si ferma e, allargando le braccia, lascia che il treno gli passi vicino.

Il bosco è finito. È iniziata la steppa. Continua a leggere

Belomor4.

DETENUTI

Convogli in marcia

Lungo la vecchia strada di Murmansk, con quel suo profilo brutto e aspro che in seguito avrebbe subito tanti mutamenti, con le sue curve brusche e i suoi pendii, con i suoi malinconici stornelli di ruote, come non se ne sentono per le strade regolari, lungo questa strada passano i convogli.
Nel vagone ci sono le donne deportate al nord. Nel vagone esse provano le loro ultime impressioni “libere”. Ancora regolano i conti, ricordano le bisbocce, i precedenti penali, i furti; ricordano i giovanotti biondi con la scriminatura laterale. In un angolo balena chissà che “Grand Hotel”, un uomo di nome Kolja, il topo d’appartamento Griša, soprannominato “Scarabeo”. Le monache si scambiano bisbigli riguardo alla cupola della chiesa che stava giusto per venire restaurata da un momento all’altro, ma il potere sovietico non aveva lasciato che il miracolo si realizzasse e quello si era inceppato a metà. Una ragazza di un’organizzazione controrivoluzionaria fuma e cerca di leggere, ma la “Murmanka” sballotta i vagoni e confonde le righe. Fuori dal finestrino galleggia la nebbia che sale dal Mar Bianco, mulina il vento, si stringono le nuvole come banchi di ghiaccio.
I convogli si radunano come mandrie: presso Medgora, e poi più avanti, verso Tunguda. Da sud spingono quelli degli istituti correzionali, da nord, dai Komi, gli abitanti di Solovkì, che rendono abitabile il nord, che già sanno come sistemare la catasta, la grande banchina di legno dove dispongono il legname, tagliato per la fluitazione.
La cosa più dura di tutte è venire dal sud. Partenza dopo partenza, stazione dopo stazione, quale ignoto si leva di fronte a te, che terre sconosciute, che cielo color bottiglia! Continua a leggere

Belomor3.

2. Il paese e i suoi nemici (continuazione)

Un fischio attraversa il baccano della stazione. Gli attendenti voltano il capo. Si allontana un treno merci con destinazione Kuznezk. Pesanti autocarri sostano sui marciapiedi dei binari, la folla che aspetta sul piazzale della stazione è, a prima vista, monotona. Donne con bambini. Contadini carichi di fagotti. Ma aspettate qui mezz’ora. Vedrete che questa irripetibile folla dell’anno 1931 è propria solo di questo tempo.
Provate a tendere l’orecchio per sentire meglio la conversazione.
Villaggio Sljudjanka. Là la chiesa è famosa. Vi fecero una perquisizione. Dietro un’icona trovarono tre bombe a mano, una pistola a tamburo e cento biglietti di un’associazione per la promozione dell’ortodossia.”
Secondo dove vai per la rete ferroviaria, riforniscono poco. Specialmente ad Alma-Ata.”
Ad Alma-Ata fa caldo?”
I baffi vanno in brodo come a Parigi.”
Quest’anno non c’erano alberi di Natale da nessuna parte. Noi eravamo da Galja. Ella sistemava l’albero. Coprirono l’albero con le lucine. Kira declamava versi.”
Che versi?”
Dalla Giovane Guardia”
Guardate e ascoltate attentamente. Presto coglierete ogni uomo di questa folla.
Nei nodi ferroviari presto sarà costruita una grande baracca di assi affinché i passeggeri in attesa possano ripararsi dal maltempo.
E’ tutto occupato. Il pavimento, le panche e i passaggi tra le panche. Sopra un tavolo si alza un grande cartello: “L’alloggio dei colcosiani si trova dall’altra parte della piazza. Nell’alloggio del colcosiano si accolgono anzitutto: a) colcosiani con e senza cavalli, b) emigranti a piedi, c) affittuari, d) coltivatori diretti con cavalli e con carico, e) inviati in trasferta, se c’è posto.”
E a noi dove ci mettono?”, brontola un giovanotto dai capelli arruffati, con i calzoni rattoppati e la giubba lacera. Siede per terra e china la testa su un piccolo cestino. Va in Estremo Oriente. Egli “vuole vedere il mondo”, fa domande sui Cinesi e se è grande la distanza dalla Cukotka all’America. Non cercate di sapere dove sia nato. Fa confusione o svia il discorso. Non chiedete nemmeno chi sono i suoi genitori. Se voi gli ispirerete fiducia, dirà in modo cupo: “Il paparino è un ricco contadino…”.
Dei fischi. Un treno con delle macchine si allontana.
C’è un Ucraino baffuto in pellicciotto di pelle, sua moglie, due bambini.
Il lavoro forzato è tutta la nostra vita”, dice la moglie e sospira.
Sono 25 anni che soffriamo. Venimmo nella provincia di Ussurijsk nel 1890. Ci assegnarono la terra per cento dessiatine di numero. Un altro non avrebbe lavorato per niente: avrebbe comprato i buoi, i cavalli e poi avrebbe dato la terra a questi capelluti Coreani … in affitto…”.
La sala d’aspetto è piena di fumo di tabacco. Il suo interlocutore tace, ma lei non se ne imbarazza.
Ora voi direte che il colcos mai sarà. Tutti andranno nei colcos, ma il loro cuore non lavora per il colcos …”
Varfolomeev, salve! Dove vai?”
Stazione Alejskaja”
Bene. Che cosa vi spinge là?”
Niente, c’è lavoro di produzione, il kombinàt per la lavorazione della barbabietola da zucchero, si costruisce una fabbrica di zucchero e molto altro ancora.”
All’improvviso si è alzato un grido straziante.
Intervenite, compagni, intervenite…”
La donna che raccontava della vita ad Ussurijsk, è saltata sulla panca e parla a voce alta. Il suo interlocutore è sparito e ha preso con sé il bauletto che stava dietro la sua schiena.
C’era roba per tremila…”, grida la donna.
Nel nodo ferroviario, in mezzo alla folla, troverete molti ladri, banditi, delinquenti. Essi si sono anche spostati dai propri luoghi e viaggiano per il paese in cerca di una vita migliore. Nel mondo dei ladri regna l’angoscia.
Nelle ultime “bettole” e “covi di ladri” si dice con perplessità che la professione del ladro stia giungendo alla fine. L’ambiente dei ladri è colpito. Il GPU effettua una quantità di arresti senza precedenti tra i delinquenti. Già non ci sono più i ricchi “carassi”, opportuno bottino al tempo della Nep1. “Succedeva che entravi nella Borsa nera con i dollari e davi al socio un simbolo…; entriamo nel primo treno che arriva, vediamo cosa c’è in questa scatoletta oltre ai brillanti…”. Tutto questo è passato. Ora tutte le cose di grande valore sono proprietà collettiva. La parola “socialismo” acquisisce un senso minaccioso nel mondo dei ladri. Con un sorriso raccontano: “Adesso ci fanno lavorare”.
Lo scassinatore Fedjukin, nella lettera ad un compagno, scrive: “Noia: i comunisti mi hanno tolto la vita, hanno spento le nostre allegre bettole, niente suonatori di fisarmonica, né giochi, né carne, non un rublo. Dove spendere le forze? Tutte nelle carte”. Fedjukin è tormentato dalla noia.
Il borsaiolo Kovalev, venuto a Mosca, ha incontrato un compagno che gli dice che a Mosca non si fa vita: “Qui Vul’ ha ripristinato l’ordine”.
Allora io faccio dietrofront”, dice Kovalev , “e vado in Bielorussia”.
Egli va nei vagoni, stracolmi di brigate d’assalto e ascolta i discorsi sui successi del Magnitogorsk e degli attacchi dei kulàki.
Ad ogni periodo storico corrisponde un particolare tipo di vagone. Tutti ricordano il carro merci con riscaldamento dell’anno ’20. Esso è descritto così dettagliatamente che è possibile stendere una ricerca scientifica sulla popolazione, abitudini, abbigliamento, attrezzi, parassiti, cibo, commercio e industria del carro merci riscaldato dell’anno ’20.
Dopo comparvero i pacifici treni della Nep, divisi in classi e che non lasciavano particolari ricordi.
Il treno del 1931 rappresenta già qualcosa di nuovo.
In treno viaggiano le brigate d’assalto, quelle degli inviati in trasferta e quelle dei mobilitati. Quattro vagoni sono occupati dalla brigata Sverdlov. Tutti vanno ai lavori di semina in Siberia. L’agitbrigata degli attori è somigliante ad un distaccamento di guerra: hanno giubbe mimetiche, calzoni militari. Ci sono studenti che vanno ad occupare posti di dirigenti. Responsabile di miniera, direttore di scuola. C’è una famiglia della Nep. Vanno dal padre, deportato nel Tomsk. Gli sverdlovcy giocano a carte e tengono dispute filosofiche. Ecco che uno rimprovera l’avversario di antidialettica. In risposta quello avanza un’accusa sull’ibridismo. Questi sono i giovani operai. La loro impetuosa erudizione non dà quieto vivere alla famiglia della Nep. Un migliaio di nomi sconosciuti e di termini, gridati con terribile fervore, si scagliano su di essa, impedendo di dormire o di leggere un romanzo tradotto.
Nell’altra parte del vagone gli studenti di agraria scoppiano in una risata e continuano fino alle lacrime, dopo aver scoperto tra di loro un codardo che si è spaventato delle voci sugli attacchi dei kulàki.
Dal finestrino del vagone si vedono nuovi tipi di costruzioni. Un montacarichi, un grattacielo di campagna, le tettoie circondate da mura dell’MTS, i fortini della tecnica agraria, il club della zona con le pareti che sembrano di cemento, una casa a tre piani che improvvisamente s’innalza in mezzo al campo di cavolo.
Un’enfasi di estensione abbraccia i passeggeri che viaggiano in treno. Essi tirano fuori la carta e ragionano su dove sia possibile costruite le strade.
Per fare di questo un ruscello proficuo”, dice un soldato dell’Armata Rossa, un giovane rincagnato di Riazan’, “bisogna far esplodere tutte le colline e portarci l’acqua dal Kama”.
Le redazioni dei giornali ricevono tutti i giorni centinaia di lettere con appendici materiali, avvolte nella tela.
Vi spedisco un frammento di pietra che ho trovato ieri durante una passeggiata in città. Non è forse questa pietra un minerale di rame?”
L’idea dei tesori naturali nascosti sotto terra agita i passeggeri ed essi ne parlano spesso.
Ecco una fermata del treno della quale si ricorderanno tutte le persone che viaggiavano per il paese durante il 1° piano quinquennale.
In uno di questi treni viaggia Kovalev. Egli ascolta i discorsi e nella sua zucca testarda compaiono nuovi pensieri, ma egli ci ride sopra, non si arrende, va a Minsk, ruba di nuovo, va a Leningrado.
Dopo a Perm. Da là a Sverdlovsk. Qui, alla stazione, fu arrestato.
Leggerete ancora del suo destino.
In un angolo della sala d’aspetto, tre uomini di buona costituzione siedono intorno ad un mucchio di ceste e fagotti. Hanno chinato la testa l’uno verso l’altro. Discorrono sottovoce, lentamente. L’espressione dei loro volti si assomiglia. Visi rudemente beffardi con una sfumatura di strana ipocrita insolenza. Non è possibile sentire i loro discorsi. Se vi avvicinerete a loro, essi subito, in modo sospetto, smetteranno di parlare e vi guarderanno freddamente e in modo fisso.
Questi non sono ladri. Essi custodiscono i loro fagotti con l’attento zelo dei proprietari. Ecco che uno di loro mostra certe carte. L’altro scrive una lettera. Chi sono queste persone? Che cosa scrive quest’uomo?
Nel circondario di Minusinsk, da un battista arrestato per la rivolta dei kulàki, hanno trovato una lettera dal seguente contenuto:
Pace e gioia a voi da nostro signore Gesù Cristo. Unitevi con l’anima a Dio e cantate alleluia. Da voi ho ricevuto una lettera, caro fratello Andrej, nella quale voi scriveste, che è possibile comprare a buon mercato nella nostra provincia. A Letkij il pane e i prodotti alimentari si trovano al mercato quanto vuoi, se ci sono i soldi. A Staroj Basan’ un pud di carne costa 5 rubli, 1 libbra di pelle di bue 25 copechi; a Sgurovka la farina di segala 4 rubli. Mentre, più avanti nella steppa, c’è un calo di prezzi. La farina si trova a 2 rubli e a 1 rublo, soltanto è difficile trovarla: la speculazione è fortemente proibita, tuttavia portano, afferrano, giudicano e multano i commercianti, così che, penso io, anche da voi c’è il potere sovietico e le leggi sono identiche…Canto con mia moglie il salmo 528: la voce della fede, vola un tempo spietato. Ovunque collettivizzano e non c’è salvezza per il riccone. Io, intanto, grazie a Dio, vivo in salute per grazia del Signore e sto alla porta di Sodoma, aspettiamo qualcosa…”
Dall’ex presidente del colcos, che fu arrestato nel marzo 1931, nel villaggio Lykovo, nella regione Kascirskij, fu trovata questa lettera:
Caro figlio, ti informiamo che entreremo nel colcos; premono da tutte le parti, vieni al più presto; forse nel colcos non vi ammetteranno, dicono che avevate un lavoro dipendente, ma noi diciamo che siete con noi, in cooperazione Petr. Ti baciamo immensamente. I tuoi genitori.”
Petr Osipov viene accusato del fatto che, dopo essersi procurato falsi documenti da un lavoratore della cooperativa, dopo essere venuto nel villaggio ed essere stato scelto nel consiglio di amministrazione del colcos, si è servito della sua posizione e ha distrutto il colcos.
Strane persone potete incontrare nei nodi ferroviari.
Ecco che per la stazione passò un tale che, procedendo con circospezione, cominciava a correre nel gabinetto pubblico e, trattenendo con la mano i calzoni, scrive sul muro: “Sai, compagno, di qui è passata una guardia bianca, presto tutti i comunisti li appenderemo”. Egli si firma con una croce e disegna sul muro una svastica.
Nessuno conosce quest’uomo. All’apparenza, è un comune cittadino. Egli può farsi assumere in fabbrica oppure partire per Mosca.
Domani, forse, lo incontrerete già per le strade di Mosca, ecco che va davanti al Cremlino, guarderà il mausoleo di Lenin.
La gente nelle zone rurali e nei cantieri, è propensa a considerare Mosca soltanto un quartier generale di un cantiere edile di 21.272.000 chilometri quadrati, quale è adesso la nostra Unione Sovietica.
Là ci sono il ZK2, il VKP3 (6), il Gosplan dell’U.R.S.S. Là c’è il compagno Stalin. “Le persone, nel Cremlino, non dormono mai”. Forse molti sono pronti a figurarsi Mosca come un’enorme ufficio, dove leggono i bollettini e danno le disposizioni.
Mosca è il quartier generale e il centro della battaglia. Adesso a Mosca si fa la preparazione per il XVII Congresso del partito. Il telegrafo trasmette i bollettini dei comitati regionali del partito, le risposte dei comitati provinciali alle richieste dello ZK. Negli istituti di ricerca scientifica centinaia di persone elaborano materiali e resoconti. Di notte, nell’ufficio dello stanco commissario del popolo, suona il telefono: “Il compagno Stalin parlerà con voi”. Il commissario del popolo aspetta alla cornetta. Stalin si informa da lui relativamente a due cifre che gli si mostrarono dubbie, nel rapporto del commissario del popolo. Di mille teste mobilitate e dal materiale grezzo dei bollettini, dei rapporti scientifici si formano i primi bilanci delle battaglie di quattro anni.
E come dal caos esterno del cantiere crescono, sotto la guida del centro direttivo del partito, i solidi contorni del socialismo, così da tutto questo lavoro apparentemente incoerente, le centinaia di persone sconosciute l’una con l’altra, il centro direttivo del partito trae chiare e precise indicazioni. Nasce con la battaglia, la disposizione del 2° piano quinquennale che determina anche i destini dei nostri eroi. Il 2° piano quinquennale è quello della costruzione di una società senza classi. Questo non significa l’attenuazione della lotta di classe. La lotta di classe sarà ancora aspra in singole regioni, in singole circoscrizioni del grande cantiere, ma in questo inasprimento doveva essere realizzato un nuovo grande compito, parte del quale è l’obiettivo del Belomostroj.
Sradicare le sopravvivenze del capitalismo non solo dall’economia, ma dalla coscienza delle persone. Presto Postyscev trasferirà questo piano generale del 2° piano quinquennale nella lingua degli obiettivi della politica sovietica di lavoro correzionale. Presto sentiranno nuove parole sulla trasformazione, sulla rieducazione del nemico classista di ieri. Questo sembra quasi impossibile, ma avverrà: così hanno deciso i bolscevichi, così ha deciso il partito. Mosca è il centro direttivo.
Ma Mosca è parte del paese e tutto ciò che è caratteristico per il paese, lo troverete anche qui. L’aspetto di Mosca cambia.
Sul terreno della palude di Sukin, giorno e notte s’innalzano enormi edifici… Qui tra poco ci sarà la fabbrica dei cuscinetti a sfera intitolata a Kaganovic.
Si riorganizza e si rafforza molte volte l’AMO4. S’innalza lo Stankostroj. Nella piazza Puskin si trova l’annuncio: “Un saluto ai lavoratori delle fabbriche elettriche che hanno realizzato il piano quinquennale in due anni e mezzo.”
È stata abbattuta la cattedrale di Cristo5. Dalle mura, fatte saltare per aria, sporgono travi di ferro. Si libera il posto per il futuro Palazzo del soviet. In tutti i quartieri si possono vedere nuove case in architettura a cassetto di cemento armato del 1931. In mezzo a queste, ce ne sono di brutte e di molto belle. In esse scorre la vita intensa con i turni di notte, le telefonate e le finestre illuminate fino al mattino.
Mosca lavora, Mosca è pronta per i preparativi per il Congresso del partito e rivolge poca attenzione all’altro “congresso” che si svolge nello stesso periodo.
Ecco che dalla stazione arriva un gruppo di contadini con i visi cupi e beffardi, con pellicce della Siberia; portano delle seghe avvolte nel feltro. Per la strada essi non disdegnano di accattonare l’elemosina. Chiedono ai passanti come raggiungere la fabbrica. Essi dicono il nome della fabbrica. “I miei parenti sono là”, dice uno di loro.
Nelle stazioni e nei portoni s’incontrano le persone dalle diverse repubbliche. Essi raccontano: “Ma da noi…” (e aggiungono una parolaccia). Questi sono kulàki in fuga. Spesso si introducono nelle fabbriche. Ed ecco che, nella macchina che si è rotta, un operaio ci trova una sbarra buttata dentro.

Mosca!

Voi andate per le sue strade, davanti a voi c’è la Presnja. Il quartiere proletario, gli anelli asfaltati dei viali. La Taganka: voi camminate per le colline, di collina in collina, di strada in strada; tutto questo è ragguardevole e antico, degno di ogni genere di rispetto. Vi siete fermati davanti al Teatro Bol’soj, vedete le sue colonne, i suoi cavalli dalle criniere color rame e non li vedete. Ed il teatro vi è scappato di mente e anche i cantanti, i ballerini, gli artisti. Davanti a voi si è alzato un paese grandissimo, le grandissime reliquie del paese che parla qui per bocca dei suoi migliori figli.
Presto qui risuonerà la voce del XVII Congresso del partito.
Le azioni e i lavori di tutto il nostro paese saranno definiti dal partito un anno prima. E’straordinario questo lavoro del Congresso, delle sedute del VKP(b), sono straordinarie queste disposizioni, nelle parole precise e decise che determinano la dinamica della storia.
D’inverno, alla vigilia del nuovo anno, il plenum del Comitato Centrale ha deliberato: “Aumentare il numero degli operai e impiegati da 14 a 16 milioni…”.

L’estate del 1931 la delibera è stata eseguita.

Il plenum decide: “Assicurare nel 1931 il coinvolgimento delle aziende collettive; non meno dell’80% delle aziende contadine per l’Ucraina (steppa), Caucaso Settentrionale, Basso Volga, Volga Centrale.”

Dopo mezzo anno questa disposizione fu compiuta.

Il plenum estivo portò la delibera intorno alla relazione del compagno L.M.Kaganovic: “Oltre ai citati attuali provvedimenti, lo ZK considera radicalmente necessario eseguire l’opera di adduzione dell’acqua dei fiumi di Mosca, per mezzo del collegamento con l’alto corso del Volga e incarica le organizzazioni moscovite, insieme al Gosplan e al Narkomvod6, di iniziare immediatamente la stesura del progetto di questo impianto.”

Col tempo questa delibera ci aiuterà a capire molto. Noi la ricorderemo già in questo libro.

Già da qualche parte tagliano la carta per la stampa delle tessere di delegato. Già, ispezionano nella strada gli stivali, da qualche parte, nella Iakuzia e nel Leninakan. Già dal Mar Caspio, i Tunguski dalla tundra o il mužik degli Urali o l’oriundo dell’Amur, depone le staffe aggiustate, sorride affettuosamente, e il figlioletto sa di che cosa sorride e chiede:
Dove vai di nuovo?”
Parto, vado al Congresso.”
Mi porterai del pan pepato?”
Come lo vuoi? Col miele?
Col miele.”
Se lo vuoi col miele, te lo porterò così.”
Egli va con un ottimo cavallo ingrassato verso la stazione. E’ bello per lui andare sul cavallo festoso e tutti capiscono del perché vada a cavallo, sul quale il soviet del viaggio trasporta soltanto o il segretario del comitato o gli ospiti dal centro o, per un particolare bisogno, qualsiasi persona meritoria del villaggio. Tutti dicono: “Nikolaj Petrovic è andato al Congresso a Mosca”. E a tutti fa piacere che proprio non uno qualunque, ma quel Nikolaj Petrovic, completamente nel pieno diritto, abbia ricevuto l’incarico di andare al Congresso.
Di sangue egli ne ha sparso non poco. Ovunque ne ha versato per il proletariato e per il popolo, ovunque il suo sangue dal Kubàn al Mare di Okhotsk, sarebbe bastato per mandare all’altro mondo una decina di persone, ma lui è perfettamente vivo e in salute.
Il minatore passa il piccone ad un altro, stringe le mani ai compagni. A lungo si lava sotto la doccia, si lava con cura i denti, indossa biancheria pulita e, sopra, una camicia ricamata. La moglie prepara i pasticci nella valigia di legno. La moglie lo bacia forte, come soltanto sa fare la moglie di un minatore; così fortemente baciano le mogli dei minatori, più forte delle altre mogli al mondo. Il minatore va alla stazione con compostezza. La locomotiva brilla, il macchinista fa capolino, tenendo fuori con baldanza un piede in un angolo, gli occhi del macchinista brillano; ma come potrebbe essere altrimenti, quale amico egli porta a Mosca!
Il fonditore del forno affida la propria brigata all’aiutante, convincendolo a lungo a sorvegliare “con i propri occhi” il forno, poiché in questo mese “ci suonano la carica monella e l’acciaio è preso con la pressione”. Egli va con la cartella e la tessera del partito per la scivolosa, metallurgica fanghiglia del bacino del Don. Si tratta di un particolare fango pesante, quando le galosce come chiodi, si attacca alla strada, il disgelo, se vedete, va con un gesto particolare, facendo alcuni particolari passi.
Ed ecco che essi si riuniscono qui. E l’orchestra comincia a suonare, Tutti si alzano. I bambini attraversano il palco correndo, portando i fiori alla presidenza, sfilano con passo di marcia solenne gli anziani operai, i soldati dell’Armata Rossa, i marinai con i loro rapporti, gli studiosi di fama mondiale dell’accademia. Di nuovo si alza tutta la sala oro-porpora del teatro, comincia a tremare il lampadario dagli applausi. E’ tutto il paese che saluta il dirigente. Questo è Stalin, il loro amico, compagno, insegnante e anche una cosa enorme, un’anima un po’ particolare ed eccellente, come se fosse semplice, ma nello stesso tempo straordinariamente rara ed elevata, tutto quello che l’umanità chiama genio. Egli sta nella sua semplice giubba e 140 nazionalità lo salutano. Sono 140! Ecco che questo saluto si ripete anche nei caldi oceani, tra i fuochisti davanti ai focolari dei piroscafi, tra gli operai nei bacini di Shangaj, dagli operai nelle praterie, i coltivatori e allevatori di bestiame, i minatori del Ruhr, i metallurgici del Belgio, i braccianti dell’Italia, nelle miniere della California, nelle miniere di smeraldi dell’Australia, dai negri dell’Africa, i coolies della Cina e del Giappone: tutti oppressi e soggiogati.
A Mosca, nel 1931, è mutata la folla di strada, sono scomparsi definitivamente i ricconi troppo grassi e le loro donne agghindate che si notano, ad un primo sguardo nella strada di qualsiasi altro paese. Nella folla è quasi impossibile vederci chiaro. Qui non esistono i concetti: viso da operaio, viso da impiegato, fronte severa dello studioso, l’energico mento dell’ingegnere, dei quali amano scrivere all’estero. Lo studioso tedesco Kurz scriveva: “Il governo è obbligato ad effettuare i censimenti psicometrici delle masse popolari affinché ognuno occupi soltanto il posto a lui prescritto per natura (ovvero dalla società classista)”. L’antropometrista occidentale, che è capitato nella folla preoccupata ed energica, che ha gremito la Tverskaja e la Sadovaja, la Mjasnizkaja e l’Arbat, che ha preso d’assalto i tram nuovi di zecca (nei quali gli universitari leggono le equazioni, tenendo in una mano il libro e con l’altra si aggrappano al cappio di cuoio; dove i dirigenti passano verso l’uscita discutendo delle cifre di controllo), che lotta per i taxi ancora poco numerosi, che litiga in fila ai magazzini, ai chioschi dei giornali e ai cinematografi, era perso e non poteva capire niente.
Ecco un passante: ha il pellicciotto conciato aperto, la camicia russa, il viso robusto rozzamente tagliato, lo sguardo fisso, le mani in tasca, il passo cadenzato militare. Quest’uomo può rivelarsi un professore di filosofia o un grande amministratore. Egli vive un’intensa vita intellettuale, lo appassionano le più grandi idee dell’epoca. Ecco un altro, con un viso da artista, cortesemente cede la strada, col cappello e gli occhiali a molla. In genere questo è un computista. Il contenuto della vita delle persone è considerevolmente cambiato, ma all’apparenza ancora non si è mutato; per questo la folla nel 1931 è ancora così poco distinguibile. Le persone sovietiche esperte distinguono in mezzo alla gente, un particolare segno del tempo. “Il nostro uomo”, dicono essi, guardando attentamente. O “non nostro”. Ma anche questi sono segni convenzionali superficiali. L’effettiva sostanza delle persone la si può comprendere soltanto nel lavoro.
L’ingegnere indossa la camicia russa, il suo discorso abbonda di slogan, il viso è aperto e pulito. Ma nel suo reparto inspiegabili avarie si fanno più frequenti. Se si capita nel suo appartamento dove egli toglie la camicia russa e, come un’investitura, annoda la cravatta, si può sentire la seguente conversazione, resa nota dalle testimonianze al processo dei sabotatori dell’industria alimentare:
La posizione è completamente inammissibile”
Non si può stare tranquilli neanche un minuto”
Particolarmente caratteristico fu il discorso di Voronzov, il quale assegnava la sua attività a dirigere a danno del potere sovietico e fare così, per peggiorare la posizione che si è creata con l’approvvigionamento dei viveri e con questo, provocare il malcontento della popolazione.
Alle 6 di sera, la folla moscovita di strada s’infittisce particolarmente. Alle fermate dei tram ci sono delle vere battaglie. Una donna col viso truccato, col manteau di falsa pelliccia, non può salire in nessun modo sul tram. Si dà da fare in tutti i gruppi che danno battaglia ai predellini, spinge, grida, ma poi rimane sul marciapiede.
Dopo due ore viene arrestata. Su di lei sono state fornite prove di taccheggio. E’ la ex-prostituta Motja Podgorskaja. La prostituzione di strada a Mosca, nel 1931, è diventata quasi impossibile; il lavoro per Motja è semplicemente noioso. Essa ha deciso di darsi al taccheggio. In questo libro incontreremo ancora Motja Podgorskaja.
Ci incontreremo ancora con lei e con molta altra gente che abbiamo già ricordato qui. Essi sono gli eroi della nostra narrazione.
L’inizio delle loro carriere è inglorioso. Essi lottavano con la società, il piano quinquennale, il socialismo. Contro di loro lottava lo stato Sovietico.
Hanno arrestato di nuovo Vas’ka, qui non si fa più vita”, dice un borsaiolo a Marucha.
Lo zio Semen l’hanno preso per questo incendio”, dice ai familiari un fiancheggiatore dei kulàki.
Avete sentito voi che hanno arrestato Risenkampf ?”, dice la moglie del professore. Essa è in ansia. Il suo viso è triste e stanco.
Per delibera dei colleghi dell’OGPU…”, dice la sentenza, “il cittadino tal dei tali, per i gravi reati contro la classe operaia, è condannato alla deportazione nei lager di lavoro correttivo, per un periodo di dieci anni”.
La vita è finita”, dice il cittadino tal dei tali. Egli pensa: “Ho 35 anni. Se non riuscirò a scappare…”.
Migliaia di persone sono mandate nei lager. Cosa li aspetta là?

CARCERI E LAGER BORGHESI

ORARIO DELLE TORTURE

Il generale russo Murav’ev represse l’insurrezione polacca nello scorso secolo. Passò alla storia col soprannome di “Murav’ev l’Impiccatore”.

Il ministro francese Thiers affogò nel sangue la Comune di Parigi. Egli rimase nei secoli col nome di “Nano sanguinario”.

Il tedesco social-democratico Noske fucilò centinaia di operai tedeschi. Su di lui si è consolidato per sempre il nome di “Cane sanguinario Noske”. Il ministro social-democratico in niente è diverso da qualunque fascista.

Il generale giapponese Takahasi Hisikari preparò la presa della Manciuria e organizzò sanguinose provocazioni al KVŽD. Egli è noto in Giappone sotto il nome di “General-passerotto”.

Egli ricevette questo soprannome qualche anno fa, quando lo nominarono a comadare la guarnigione all’isola di Formosa. In risposta alle felicitazioni, il generale Hisikari dichiarò: “Mi reco a Formosa saltellando con gioia, come un passerotto”. Questa elegante immagine è presa dal generale dalla poesia classica cinese, della quale egli si considera un conoscitore. Nel Giappone amano l’eleganza della forma. Il vecchio caporale e boia prende il nome del piccolo ed elegante uccellino.

Viaggiando per le ferrovie giapponesi, per le strade si notano con meraviglia gruppi di persone, vestiti di abiti rosa. Da lontano sembrano angeli. Gli angeli innalzano terrapieni e costruiscono rotaie. Tutti i loro movimenti sono accompagnati da un suono melodico. Dopo aver guardato attentamente, il viaggiatore nota pesanti catene alle gambe degli angeli. In Giappone i detenuti indossano abiti rosa per ornare, con le loro figure, il paesaggio. Là amano l’eleganza della forma.

Sull’isola di Riu-Kiu esiste una particolare forma di pugilato. Si chiama “boxe di Riu-Kiu”. Si avvolge in un tappeto un grande vaso di porcellana. Il pugile picchia sul tappeto. Non risparmia le forze. Egli, soltanto, stringe i pugni in modo particolare. L’arte consiste nel ridurre il vaso in cocci, non muovendo il tappeto dal suo posto e non cambiandone la forma di vaso.

Nelle carceri giapponesi il detenuto sta al posto del vaso. Al posto del tappeto c’è la sua pelle. I carcerieri picchiano con i metodi dell’isola di Riu-Kiu. Polmoni, costole e reni sono colpiti e rovesciati. La pelle rimane illesa. In Giappone amano l’eleganza della forma.

Per le strade di Tokio portano i detenuti dal carcere di Icigaj in tribunale. Hanno abiti color rosa tenue. Sulla testa portano canestri di paglia, affinchè il loro viso cupo non scalfisca nei passanti la sensazione di eleganza. Nessuno in Giappone vede il viso dei detenuti. I giudici sono mascherati. Hanno abiti medievali, variopinti e sfarzosi. Tutto è pervaso dalla tradizione. Nella pratica della polizia giapponese, si è conservato l’antico spirito dell’epoca di Tokugava: iniettano al detenuto di acqua fredda nelle narici, lo stirano su un telaio, gli strappano delle unghie e, come concessione della civiltà moderna, lo pestano con manganelli di gomma.

La pena di morte in Giappone è stata modernizzata, ma nello spirito nazionale. La pena di morte in Giappone si chiama “kosjudai”. Traduzione letterale: “patibolo per lo schiacciamento della testa”. Portano il condannato a una scala. Il monaco buddista mormora le preghiere. Il dottore tasta il polso al condannato. Il dottore annuisce con soddisfazione: “Sano. Può morire.” Il condannato sale su per i gradini. In uno degli scalini egli cade improvvisamente. La testa rimane al livello del gradino. Le pareti iniziano lentamente ad avvicinarsi. Esse stritolano la testa dell’uomo. Un giornalista giapponese poco tempo fa scriveva che l’uccisione di un uomo col metodo del “kosiudai” procura all’ucciso un indicibile piacere.

Ai comunisti condannati che riescono ad evitare il “kosiudai”, tocca il carcere a vita. Questo è lo stesso una pena capitale, soltanto allungata di dieci anni. Il 99% dei detenuti muore di tubercolosi.

Questa è la situazione in Asia.

Ecco qual è quella in Europa.

In Inghilterra, dove picchiano perfino gli scolari, la pena corporale è prevista dal codice penale. Questo non lo nascondono. Nella statistica penale inglese troviamo un elenco dettagliato dei pestaggi realizzati nel 1929 nelle terre del Regno Unito, con l’indicazione del carcere, della quantità dei colpi, degli attrezzi del lavoro: la verga o il gatto a nove code7, e con l’annotazione se la pena è approvata dal Ministero degli Interni. Nel carcere inglese succede in questo modo, che nella cella del detenuto entra il secondino e dice: “La scorsa settimana vi abbiamo frustato, Sir”. “Sì”, dice il prigioniero e sobbalza. “Il Ministero degli Interni non ha approvato questa fustigazione, Sir”, dice il secondino, si inchina ed esce.

In India la legge fissa il limite della fustigazione: trenta colpi di frusta o di bambù. Questo riguarda soltanto gli indù.

Per frustare un inglese è necessario portarlo nella metropoli. Là i giuristi inglesi danno l’approvazione: la quantità dei colpi è minima. Ma là frustano con il gatto a nove code. Un colpo del gatto a nove code è pari a nove colpi di una normale frusta.

In tutti i paesi borghesi picchiano i detenuti. Quei paesi borghesi, nei quali picchiano i detenuti senza una legge scritta, hanno presentato alla Società delle Nazioni una protesta contro l’Inghilterra, dove puniscono i detenuti sulle basi di una legge scritta. La Società delle Nazioni, definita l’istituzione più umanitaria del nostro tempo, ha esaminato questa protesta. Ecco la sua dichiarazione:

Se in alcuni stati sono ammesse le pene corporali, la loro esecuzione deve essere regolata dalla legge (articolo 39-ja “della Regole del regime per il detenuto”, presentate nei rapporti della Società delle Nazioni nel 1930).

La legge inglese è stata fatta da quello stesso materiale dal quale sono stati fatti i manganelli di gomma che accompagnano l’applicazione della legge. In Inghilterra, tutt’ora, applicano le leggi emanate nel medioevo.

Quando occorre condannare in fretta un comunista e non c’è una legge che faccia al caso, si rivolgono al passato, si insinuano negli archivi sanguinari dei tempi di Pitt, Cromwell!!!, Giovanni Senza Terra.

Nel 1926 i membri del Comitato Centrale del Partito comunista inglese furono condannati secondo una legge del 1798. Nel 1932 in base alla stessa legge deportarono all’ergastolo i comunisti Elisson, Sheffer e Peterson.

Ovunque tintinnano le catene. In Inghilterra esse hanno la denominazione accademica di “misure di sicurezza”. Nella statistica delle prigioni spagnola del 1927, abbiamo trovato il numero a tre cifre 557. Ognuno dei 557 detenuti è legato da un sistema di catene che circonda la vita come una cintura e si unisce alle gambe. Lo portano a vita. Le catene impediscono di togliere il vestito. Gli incatenati non si spogliano mai.

Nell’India Britannica, nelle Isole Andamane, su una popolazione di poco più di 7.000 persone, 5.500 sono state condannate all’ergastolo.

Un giurista tedesco, il professor Folgen, entrò nella cella del detenuto n. 4922. Il numero si riferisce all’uomo, non alla cella. Nessuno conosce il nome dell’uomo. Egli stesso l’ha dimenticato. Egli è condannato alla detenzione per 99 anni. Questo era nella prigione di Sant’Ada, nello stato del Nuovo Messico.

Nel 1876 un giovane di nome Pomroi uccise un compagno. Lo misero in cella d’isolamento. Aveva 14 anni. Dopo due anni cominciava a fare i primi pensieri sulle donne. Dopo tre anni gli spuntò la prima barba. Dopo quattro anni, gli cambiarono vestito, era cresciuto. Non sapeva niente delle guerre, delle rivoluzioni, delle automobili, dei cinematografi, dell’aviazione, della radio. Poi diventò vecchio e morì. Lo seppellirono nel 1932 nel cimitero della prigione. Aveva vissuto 56 anni in isolamento.

Il viaggiatore che ha visitato nel 1928 il carcere newyorkese di Sing-Sing, osservava le situazioni dei detenuti. Egli scrive sul suo libro: “ Incontravamo ripetutamente cognomi accanto a cui stava l’anno d’entrata 1880. Nell’anno attuale queste persone contano già il 48°anno della loro disperata permanenza in prigione.”

La maggioranza dei carcerati a vita nelle carceri borghesi, finisce con l’impazzire. La parola “mai” porta alla follia. Poi, come dice il direttore di una delle carceri, per il detenuto a vita comincia il secondo periodo. Il periodo della speranza. Egli è in via di guarigione. Egli spera. Spera nel corso di 15-20 anni. Egli si comporta per tutto questo tempo in modo irreprensibile. Egli è già un uomo adulto o un anziano. Ed ecco che presenta una supplica di grazia. Arriva una lettera di risposta. In essa è scritta una sola parola: “Negata”. Il detenuto impazzisce di nuovo. Muore da vecchio pazzo.

Tale è il percorso del detenuto a vita descritto dal professore tedesco Lipmann, che esaminò più di 2.000 carcerati a vita.

Quando il tribunale borghese non trova possibilità di giustiziare un comunista, cerca di finirlo con il carcere a vita. Anche se questo è un bambino. Un ragazzino dodicenne vendeva per le strade di Reims un giornale antimilitarista. Il tribunale condannò il ragazzino a 9 anni di carcere. Suo padre era un comunista.

Dal 1926 al 1930, 286 comunisti italiani ebbero 20 anni di prigione e 158 ebbero 30 anni.

Inoltre, la disoccupazione che iperversa fuori dalle mura del carcere borghese, penetra anche dentro di esse. I detenuti non possono competere con i liberi.

In Prussia, le persone detenute per un totale di 30.091 anni, 14.000 anni li hanno trascorsi senza compiere alcun tipo di lavoro. 140 secoli di ozio! In Francia, per ogni centinaio di detenuti, 28 uomini non lavorano e la paga di quelli che lavorano è pari a 4 copechi al giorno.

In Polonia 203 carceri sono del tutto senza spazi adibiti al lavoro. In Italia soltanto il 22% dei detenuti sono occupati in un qualche lavoro. Cosa fanno allora essi? Passeggiano, forse? Sì, passeggiano. Ecco il portone di una di queste carceri. I detenuti camminano in fila. La distanza tra l’uno e l’altro è di cinque passi. Il mondo consiste nel cielo sopra la testa, nelle mura intorno a loro e nella schiena davanti agli occhi. Ma è vietato guardare sia in alto che in basso. Guarda solo davanti la schiena del compagno. E’ vietato parlare. Mezz’ora è passata: marcia in cella!

Non ci sono biblioteche. Niente accessori per scrivere.

Tutte le prigioni del mondo borghese sono simili.

Ci sono leggere variazioni. In Italia la razione del carcere è di 600 grammi di pane e zuppa. In Polonia, piselli marci e acqua putrida. Tuttavia, offrono generosamente la religione. Però, nelle chiese delle carceri ai detenuti è vietato bisbigliare le preghiere, affinché, col pretesto di bisbigliare le preghiere non si parlino.

In Ungheria!!! arrestarono una scrittrice tedesca, Isolda Reuter. Atto imprudente! Essa era una scrittrice borghese. Apparteneva al ceto privilegiato della società e raccontò tutto quello che le era accaduto in prigione. La incatenarono mani e piedi, poi le fecero passare tra le braccia e le ginocchia un bastone di ferro e la colpirono sulle piante dei piedi nudi con un frustino di gomma.

E’ facile immaginare cosa facessero alle persone non privilegiate: agli operai, ai comunisti!

In Jugoslavia in due anni di dittatura fascista sono stati sottoposti a torture 932 rivoluzionari. La Grecia dà le proprie varianti. Qui legano le gambe dell’interrogato con cinghie non conciate. Ad esse è collegata una leva. Si gira la leva e le cinghie, solcano il corpo fino alle ossa. La Romania aggiunge ai metodi dell’inquisizione spagnola quelli realizzati dalla civilizzazione: ipnosi, corrente elettrica.

In un noto carcere borghese esistono camere di tortura. Il detenuto viene fissato con le cinghie ad un lettino. Egli non può muoversi. Dispositivi speciali sulla testa e sulle gambe stirano il corpo. Il detenuto viene lasciato in questa posizione. Rimane così per giorni, settimane. Gradualmente si imputridisce.

Si spiega, allora, l’esclamazione di Terracini, il quale dopo la condanna, gridò in faccia ai giudici: “Voi non avete il coraggio di condannarci apertamente a morte, ma vi è chiaro che mandandoci in isolamento nei sotterranei, ci condannate a morte!”.

Sì, anche questa è morte, ma distribuita negli anni. Il numero calcolato dei deportati in Guyana fino al 1875 è di 21.248 uomini. E’ stato calcolato anche il numero di quelli che dalla Guiana sono ritornati: 3.637 uomini. Il resto: 17.611 uomini. Essi sono sotto terra.

Ecco l’isola di Lipari nel Mar Mediterraneo. E’ una piccola isola vulcanica dalla quale non si può fuggire. Qui portano i politici. In un anno hanno portato qui 500 politici.

Vediamo cosa ne è stato di loro.

Uno è stato sgozzato con un colpo di baionetta alla gola.

Due sono stati fucilati.

Quattro si sono suicidati.

37 sono impazziti.

43 sono stati feriti dai gendarmi.

107 sono stati condotti nella galera locale, il terribile carcere di Lipari.

118 si sono ammalati di tisi.

Passiamo all’Indonesia. Essa è una colonia olandese. Tanmalako, un autore!!! aborigeno, scrive:

Se i detenuti europei possono ancora vantarsi di cibo che appartenga all’alimentazione umana, i detenuti indigeni ricevono del vitto che il borghese europeo si vergognerebbe di dare al suo cane. Se i detenuti europei possono vantarsi di ricevere celle (sebbene anch’esse molto piccole), e tuttavia con un letto (sebbene non morbido), e con la cortina per proteggersi dalle zanzare anofèle, ai detenuti indigeni non viene dato niente di tutto questo e vengono chiusi in minuscole celle da 10 fino a 20 uomini, i quali rimangono vittime della malaria e dell’omosessualità…”

Le persone benestanti di rado finiscono in prigione.

Dalla prigione ci si può fare esentare pagando.

Nel 1931, 1.833 giovani inglesi e 119 ragazze inglesi finirono in carcere. Il 50% di essi ha ricevuto la detenzione in carcere al posto di una multa. Essi non potevano permettersi di pagare una multa. Li mandarono in carcere, li incatenarono alle mani con i recidivi incalliti.

In Italia, secondo il codice del 1930, è permesso pagare una multa al posto di una detenzione di 3-4 anni. La multa è pari a 5 rubli al giorno. Chi possiede ricchezze cospicue si può permettere di condurre una vita criminale.

Perfino in carcere, se si ha del denaro, ci si può sistemare con le comodità. Nelle carceri francesi si può avere una bella stanza (essa si chiama “cellule de pistole”) per 2 franchi e mezzo al giorno, con riscaldamento e illuminazione, e per 1 franco e mezzo, senza.

Tutta la forza della vendicatività classista della borghesia, si scaglia sui poveri, sui lavoratori. Negli stati borghesi che, boriosamente, si chiamano “di diritto”, la sorte dell’operaio è l’effettiva assenza di diritti. Il diritto è privilegio degli abbienti, nel potere o nel carcere: è uguale.

La vecchia galera zarista e la deportazione, applicavano ampliamente ai detenuti un’oppressione fisica e morale.

La stessa crudeltà si usava ai detenuti nelle galere, così chiamate “centrali”, ad Orlovsk, Jaroslavsk ed altre.

Ecco come là accoglievano i detenuti, secondo i ricordi degli ex-ergastolani politici.

Gli ergastolani venivano raggruppati e, prima di tutto, li portavano nei locali del bagno. Viene dato il comando di spogliarsi nudi, dopodiché li fanno correre fra due file, dove vi aspettano 60-70 secondini. Molti escono dalle file con le costole rotte, con le membra distrutte, con i polmoni e il fegato compromessi, con i visi deturpati, con i denti rotti, ecc., mentre alcuni restano semplicemente sdraiati nel posto del macello… A quelli che hanno perso i sensi versano addosso acqua fredda e li picchiano di nuovo, senza pietà, con maestria… Li alzano e li buttano sul pavimento. Il sangue esce a fiotti, di spruzzi di sangue sono coperte le pareti, esso si vede ovunque…”

Poi seguiva la “lezione della galera”:

“… Bogomolov, senza dire una parola, mi prende per il collo, mi mette nel centro della cella, sempre in silenzio, come se si trattasse una cosa inanimata; con la punta dello stivale mi colpisce le gambe e dice:

Ecco qui e così, sull’attenti, devi stare quando qualcuno entra da te… Lo stesso, sia all’appello mattutino che a quello serale… Lo stesso, ogni volta, quando il secondino guarderà nello spioncino… E soltanto quando l’appello sarà terminato e te rimarrai solo o quando lo spioncino si chiuderà, te potrai cambiare posto. Chiaro?… Quando entrerò io o un capo, o un assistente o un signor superiore e ti saluteranno, tu devi rispondere forte e chiaro: “Salute, signor capo”, o anche “Signor capo” o “Vostra signoria”. Solo, non devi strascicare le parole, ma rispondere velocemente così: “Salvesignore” o “Salvevossignoria…”. Ma ricorda anche… le pareti, il davanzale, il pavimento, tutto deve brillare come uno specchio… Il vasellame di rame, come il fuoco… Da nessuna parte deve esserci polvere… Nel bugliolo e sotto il bugliolo, deve essere pulito e in ordine… A tutte le domande rispondi così: “Signorsì… Signornò… Ubbidisco”. E che non ci siano nessun “Sì” o “No”… Chiaro?

Dopo una breve pausa, Bogomolov aggiunse:

Il primo mese sarai senza libri, senza corrispondenza, senza copie… Poi vedremo… Ma se non ti comporterai così, allora avrai la frusta…”

Il mantenimento della pulizia della cella diventava una nuova tortura per i detenuti:

Ti avevo detto che il pavimento deve splendere come uno specchio”, di nuovo urlò il superiore. “Questo sarebbe il pavimento? Prendi lo strofinaccio. Strofina!”

Io afferro dalla seggetta del bugliolo un paio di strofinacci, mi accovaccio e con tutte le forze strofino il pavimento. Ma un colpo di chiavi sulla schiena improvvisamente interruppe il mio lavoro. “Non accovacciato, in ginocchio!”, gridò Bogomolov.

La lezione continua con tale rabbiosa fretta che non riesci nemmeno a vuotare il fetido vaso, né prendere la brocca dell’acqua per bere…Lavarsi nel waterclòset? Ti ammazzano per questo, sebbene siano stati costruiti dei bei lavandini, ma di lavarsi nella cella nessuno osa.”

Frustavano con qualsiasi pretesto e, del tutto, senza motivo:

Vaisman fu frustato, perché non rispose “Salve”, Kichtenko per offesa al secondino.

Einik si impiccò, perché soffriva di attacchi epilettici, i dottori lo presero per un simulatore e Druzinin promise di fustigarlo se l’attacco si fosse ripetuto.

Vidnev soffriva di un disturbo psichico, Druzinin lo picchiò e inoltre, convocò un raduno, in presenza del quale, frustò un detenuto e poi toccò anche a lui.

Druzinin comandò: “Comincia”. Le verghe fischiarono ma non colpirono… Poi lo sollevò da terra, lo coprì di ingiurie e disse: “Se ti ricapita un attacco, ti frusterò”.

Puniscono per un lavoro fatto lentamente, e quando rispondono che farlo più in fretta è impossibile, Druzinin grida: “Non m’interessa”, “Ti frusto a morte”.

L’ergastolano a tempo indeterminato Mel’nikov, non del tutto sano di mente, cominciò a gridare qualcosa dalla sua cella d’isolamento: immediatamente lo picchiarono e lo trascinarono alla fustigazione. Alle grida di Mel’nikov gli altri si misero a battere contro le porte. Per questo rumore frustarono Scarapov, Novikov, Uzikov, Suev e anche altri compagni. 50 Uomini furono messi in cella di rigore per 10 o 20 giorni!!!.”

Le stesse cure mediche si trasformavano cinicamente in scherno dei detenuti, oppure in un’aperta serie di botte. Il dottore nella galera zarista era l’aiutante del torturatore.

Dell’aiuto medico noi eravamo, di fatto, privati. In verità, il dottore nel carcere c’era. Il nome di questo tiranno della medicina, se non sbaglio a ricordare, è Suckov. Egli nelle celle, dai malati, non ci andava. Per quanto gravemente uno fosse malato, deve scendere dal 4° piano al piano terra, dove ad un tavolo, circondato dai secondini, siede il dottore.

Che cosa ti fa male?”

Il malato si lamenta per la tosse, l’asfissia, l’emottisi, le sudate notturne.

Vuoi simulare la tisi? Bene, vediamo.”

Egli ascolta disattento attraverso la camicia. Ed era un caso frequente che egli, rivolgendosi al superiore, dicesse:

Simulatore”

Per quello si finiva in cella di rigore.

Se qualcuno di loro (di quelli a lungo termine) si ammalava, il dottore neanche andava da lui e, qualsiasi malattia avesse, non lo portavano in ospedale. Così essi morivano senza assistenza medica.”

Il dottore picchiava di propria mano i detenuti, per non parlare delle imprecazioni triviali che ogni minuto uscivano dalla sua bocca…”

Il battere dei polmoni veniva praticato come effettivo mezzo radicale per sbarazzarsi dei detenuti particolarmente seccanti. Il dottore del carcere registrava in questi casi, “tubercolosi”, e si mascherava, così, il delitto”.

Ecco come descrive una delle detenute politiche la cella del carcere di Butyrka, dove si trovava nel 1908:

Piccole finestre a torre, basso soffitto ad arco, pareti storte, umidità che non si asciugava nemmeno in estate, terribile aria viziata, strettezza… Donne, giovani ed anziane, sbarrate qui per molti anni, per sempre. Oltre allo sporco lavoro, superiore alle loro forze, non c’era altro che riempisse la loro vita…”

E ancora:

Da qualche parte, da dietro, echeggiò furiosamente: “Manda questi figli di puttana nella palude!”… Sotto i feroci colpi dei calci di fucile, un gruppo in transito ripiegò a sinistra, nella melmosa palude, coperta d’erba. Qui, ogni passo, richiedeva uno sforzo. Le gambe, a volte, sprofondavano nel fango nero fino al ginocchio, si sfilavano e si impantanavano le scarpe di cuoio, per la perdita delle quali al detenuto, nel carcere, toccava forse anche la frusta. Le persone cadevano, si trascinavano per le gobbe del terreno, e i colpi arrivavano e arrivavano… I soldati erano divisi in due gruppi: un gruppo riposava, andava per la strada, andava sui carri; gli altri correvano accanto a loro per la palude e picchiavano, senza risparmiare le forze, picchiavano con i calci dei fucili sulla schiena, sul collo, sulle gambe… A tutte le suppliche, preghiere, persuasioni delle donne, i soldati rispondevano bruscamente e di nuovo alzavano il calcio del fucile. In particolare ricordo la figura dell’anziano, alto tartaro; quello, non si sa perché, lo picchiavano più di tutti. Dopo ogni colpo nella schiena, egli cadeva supino con un breve tossicchiare; lo rialzavano con un colpo di stivale in faccia ed egli di nuovo correva e di nuovo cadeva. Molti erano insanguinati, alcuni sputavano sangue. Alla fine, i soldati erano sfiniti. Di nuovo riprendemmo la strada, e poco dopo fu fatta la sosta. Noi ci rinfrescammo i visi, bevemmo e ci sdraiammo per terra. Il secondo pezzo di cammino si svolse lentamente, ci fermammo ad ogni ora. Quelli picchiati, stavano seduti o sdraiati sui carri. I soldati di guardia tacevano e non ci guardavano e, l’uno con l’altro, provavano, chiaramente, una pesante fiacchezza dopo la furia. Alla fine comparve Gornji Serentuj e dopo un’ora entrammo dal portone largamente spalancato del carcere nel cortile, dove ad un tavolo sedevano, pronti per il ricevimento, i capi superiori del carcere. Non so in quale forma fu presentato il lavoro delle guardie al capo superiore, ma alla dichiarazione del gruppo sul pestaggio, seguiva soltanto un minaccioso richiamo. Alcuni uomini furono velocemente portati in ospedale.”

La borghese Finlandia, una volta colonia dell’impero russo, ha mantenuto e potenziato il sistema zarista di oppressione dei detenuti.

Non lontano dalla Carelia sovietica, nelle camere finlandesi di tortura scorre il sangue degli operai rivoluzionari.

La Finlandia. Il paese dei laghi e della foresta. Una lingua risuona su entrambi i lati del confine.

Nel carcere di Ekanas ci sono 500 prigionieri politici. La maggioranza è a tempo indeterminato. Essi lentamente muoiono. Le grigie prigioni di Ekanas: focolaio della tubercolosi. Il cibo qui raramente è commestibile. Se sei un avvocato, un fabbro, un cocchiere o un calzolaio, è uguale: pialla! Sega! Ti è stata ordinata una norma. Se sei forte o debole, è uguale: sega! Se non hai eseguito la norma entro il termine, finirai in carcere. Quattro giorni a pane e acqua. Se non l’hai eseguita per la seconda volta: due settimane. Se non sei riuscito a fabbricare piallando la norma, nemmeno alla terza volta: carcere. A tempo indeterminato. Tutti i carceri qui sono stracolmi. Le norme sono tali che è impossibile eseguirle entro il termine. Sono pochi quelli che escono dal carcere finlandese. Semmai solo per andare al cimitero. Makslin, Kujalla, Kininas, Vuaris, Kokoo, Jarvinen, Ghieminen: ecco i nomi dei comunisti uccisi nelle carceri negli ultimi tempi.

Una volta, nel paese di Rovanjemi si incendiarono i magazzini di legname. Questo accadeva nell’agosto 1930. Il servizio di guardia arrestò i primi operai che riuscì a beccare. Essi non erano colpevoli dell’incendio del magazzino. Ma di loro si sapeva che erano collegati con le organizzazioni rivoluzionarie. Nella notte, uno degli abitanti di Rovanjemi uscì nel bosco a spaccare dei rami. Esso vide una grande colonna di fumo alzarsi sopra il bosco. Egli pensò: hanno appiccato un incendio? Si avviò verso il fumo. Presto sentì delle voci e dei lamenti. Facendosi con cautela strada con le mani tra gli arbusti, andò verso le voci. Ecco cosa vedeva. Un grande rogo. Presso il rogo si dibatte un uomo legato. Egli è nudo. Il fuoco lambisce il suo corpo. Grida. Le altre persone, con dei grandi bastoni, non gli permettono di ritirarsi dal fuoco. Dopo aver guardato attentamente, l’abitante di Rovanjemi riconobbe nelle persone le guardie del posto, e nell’uomo nudo, Kumpumjaki, uno degli operai arrestati.

Aveva paura e voleva andarsene. Ma ebbe paura di tradirsi con un movimento. Rimase e vide tutto quello che accadde dopo. Vedeva come frustavano Kumpumjaki con delle verghe e, di nuovo, bruciavano. Ma l’operaio gridava: “Non sono io…”. Allora le guardie, dopo essersi consultate, portarono Kumpumjaki al formicaio. Ne uscì una moltitudine di formiche che si arrampicavano sul corpo affumicato dell’operaio e lo pizzicavano. Kumpumjaki emise un gemito: “Va bene! Sono io!”. Lo slegarono, gli porsero carta e matita. Egli sottoscrisse: “Confessione”.

Il giorno seguente, nell’ufficio del lensman, trascinarono dentro la sedicenne Elena Lepjanen. La spogliarono completamente e la legarono ad una panca. Portarono una verga. Quattro volte ella, sotto la frusta, perse i sensi. La rianimavano e la colpivano di nuovo. Essa sottoscrisse: “Confessione”.

L’avvocato Kontunek assunse la difesa di queste persone innocenti. Allora attirarono anche lui con una trappola nell’ufficio del lensman e lo sottoposero a torture. Sotto la frusta egli sottoscrisse la rinuncia alla difesa degli accusati di Rovanjemi.

Tale Finlandia è un paese silenzioso. Granito, laghi, bosco.

Nella Germania fascista c’è tutto quello che c’è in tutte le carceri borghesi. Fame, catene, religione, fruste.

Tuttavia, là questo esiste in tali misure e livelli, come in nessun altro posto al mondo. Inoltre, in Germania ci sono i campi di concentramento. Noi daremo un’occhiata anche là. La Germania fascista si distingue dagli altri paesi per il fatto che, sotto la frusta e le atrocità, annovera una base filosofica. Così, in Germania si percuote. Ma c’è anche un regolamento della punizione. C’è la tortura. Ma c’è anche un orario delle torture. La Germania fascista, il paese dei filosofi, dai tempi dell’arrivo di Hitler, crea un’intera serie di teorie delle percosse e delle uccisioni.

Il teoretico fascista, il giurista Kerrl, dichiarò apertamente:

Fino a questo momento la privazione della libertà si realizzava in tale modo che il tenore di vita del detenuto era di gran lunga più alto del tenore di vita del disoccupato o del piccolo contadino. Questa condizione deve essere modificata e la nuova legge pone fine a tutto ciò. L’ordinanza è redatta adesso in tal modo, che il tenore di vita del detenuto si mantenga più basso di quello del disoccupato. Questo è necessario anche al fine di ridurre la criminalità nel futuro. Lo stesso deve diventare chiaro per il detenuto, affinché mai egli sia di nuovo preso dal desiderio di tornare in carcere. Il detenuto deve convincersi del fatto che il carcere non è un albergo gratuito.”

In questo modo la politica di correzione è completamente bandita dal sistema punitivo della Germania fascista.

La frusta diventò il mezzo principale del sistema tedesco di “correzione dei delinquenti”.

La semplice appartenenza al partito social-democratico si punisce con 30 colpi di verga di resina sul corpo nudo; per l’appartenenza al partito comunista, come regola generale, toccano 40 colpi. Se il punito adempiva una funzione politica o sindacale, allora la misura della punizione cresce.”

La pratica segue immediatamente la teoria.

Un seminterrato buio. In mezzo, un cavalletto di legno. Qui è stato versato tanto sangue che si sente l’odore da tutte le parti. L’anziano operaio l’hanno gettato sul cavalletto. La sua colpa è quella di aver organizzato una mensa per i disoccupati. Lo frustano con verghe d’acciaio. Egli deve contare i colpi a voce alta. Al terzo perde la voce. Al quinto la pelle si spacca. Il sangue scorre.

Poi ci sono le torture morali. Le false fucilazioni. Le pallottole che fischiano sopra l’orecchio.

A volte, purgano i detenuti con l’olio di ricino. Durante la flagellazione essi defecano. Il fine è di sprofondare l’uomo nell’abisso della vergogna, sfinire moralmente, distruggere la volontà.

Sì, questo è fatto con intento. Questo è stato previsto. Questo è presente nell’orario delle torture.

L’elettricista telegrafico Grotegenne non era iscritto a nessun partito. Egli era un membro della bandiera repubblicana. Il lunedì 27 marzo da Grotegenne arrivarono le SA e gli ordinarono di seguirli nella loro caserma. Sua moglie pensò che questa solita prova obbligasse ad aderire al partito dei nazional-socialisti e consigliò al marito di fare velocemente domanda di adesione e di non uscire di casa.

Ma Grotegenne andò con i fascisti in caserma. Passarono alcune ore. Egli non ritornava. La moglie decise allora di andare da lui. Davanti alla caserma delle SA c’era un fascista di nome Meier. La signora Grotegenne s’inginocchiò davanti a lui, piangeva e pregava di rilasciare il marito. In quel momento, gettarono fuori, nella strada, il corpo di Grotegenne. Egli era ridotto in un pezzo di carne insanguinato. Alcuni uomini portarono il corpo della vittima a casa. Poiché sospettavano l’avvelenamento, gli versarono in bocca del latte. Egli vomitò.

La moglie, dopo avergli asciugato la schiuma dalla bocca, notò che il suo fazzoletto da naso era ridotto in brandelli dall’acido contenuto nel vomito. Grotegenne di tanto in tanto era abbastanza in sé da poter raccontare come lo tormentarono. Lo spogliarono e per tre ore di seguito lo picchiarono con delle verghe d’acciaio; negli intervalli lo obbligavano ad asciugare il sangue dal pavimento col proprio vestito.

Mentre egli giaceva privo di sensi, stringendo i denti, i fascisti cercarono di versargli in bocca della soda caustica. Siccome questo subito non gli riuscì, allora gli aprirono la bocca con la forza; nello stesso momento gli staccarono una parte del labbro superiore.

Grotegenne morì fra terribili sofferenze la sera del 29 aprile. Il cadavere fu sottoposto ad autopsia giudiziaria. Come causa di morte constatarono un’emorragia cerebrale e ustioni della bocca, dell’esofago, dello stomaco.

La procura si occupò di questa faccenda, ma fino a questo momento a nessuno dei colpevoli fu fatta causa.

All’inizio di marzo fu messo in arresto Fritz Humbert di Heidenau. Lo condannarono, perché “aveva sotterrato provviste di guerra e armi”. Lo portarono nella fortezza di Koenigstein, da lì nel campo di concentramento di Hohenstein. Là lo legarono a cinghie di cuoio e lo sottoposero a torture. Le torture da lui subite, furono talmente crudeli che morì. Alla moglie comunicarono che egli era morto a causa di un’emorragia allo stomaco e all’intestino.

Gli operai dell’impresa, che si trovavano a Heidenau, raccolsero i soldi e ottennero il trasporto del corpo a Heidenau. Questo fu autorizzato, ma con la condizione necessaria, affinché non aprissero la bara. Gli operai, tuttavia, non rispettarono tale disposizione.

Nessuno dei testimoni dimenticherà mai l’immagine che gli si presentò. Il viso sembrava letteralmente frantumato in pezzi. Probabilmente la stessa lingua non c’era. Sulle mani si vedevano le tracce di pesanti catene, i glutei apparivano come un pezzo di carne tagliuzzato. L’ano era completamente tappato con un cencio per trattenere l’emorragia, la spina dorsale era spezzata, gli organi sessuali lacerati, la coscia destra rotta, l’addome era sfondato, così che gli intestini uscivano fuori. Le labbra morse testimoniavano quali terribili sofferenze avesse subito Humbert.

Quando intorno al corpo, con orrore, si riunì la folla di operai sdegnati e sconvolti dall’orrore, le SA di nuovo portarono via il cadavere. A Heilenau arrivò il boia Killinger in persona con l’intero centro direttivo di poliziotti e dottori. Fu organizzata una perquisizione generale negli appartamenti degli operai per confiscare macchine fotografiche e lastre. Ai testimoni, sotto minaccia delle più terribili pene, fu ordinato di non raccontare nulla. Quelli che erano presenti all’esame del corpo, furono convocati separatamente e ricevettero l’ammonimento di “tenere la bocca chiusa”.

Il venerdì 28 aprile, si fecero i funerali. Circa 3.000 operai ed operaie erano presenti per dare l’ultimo saluto al defunto. Tutte le strade attigue erano circondate dalle SA che tenevano le armi pronte all’uso. Quando la processione arrivò ai cancelli del cimitero, arrivarono i fascisti e la dispersero.

Nel cimitero lasciarono entrare soltanto i familiari. Alla tomba tenne il discorso il sacerdote che, dimostrativamente, aveva indossato il distintivo fascista.

Il 26 marzo il comunista Edom a Koenigsberg, in Robertastrasse n. 6, fu prelevato dall’appartamento alla mezzanotte. Era noto che egli si trovasse in rapporti amichevoli con il deputato comunista del Reichstag Shutz; lo picchiarono per due ore così disumanamente che egli, essendosi confuso, impazzito dal dolore, non resse e in stato di semi-incoscienza, rivelò dove si trovava Shutz.

Alle 2 e 30 del mattino nella stessa caserma trascinarono Shutz e là, per 12 ore, lo picchiarono, lo ferirono e calpestarono, finchè egli non si trasformò in una massa completamente informe, impossibile da identificare. La sera del 29 marzo Sciutz morì all’ospedale. Nel certificato di morte c’era scritto: “per collasso cardiaco”.

Il 3 aprile sotterrarono Shutz come un animale. Nessun giornale tedesco aveva informato della sua morte. Con le minacce avevano messo a tacere i dottori e gli infermieri.

La moglie del defunto, durante quel periodo, era tenuta sotto custodia. Il figlio dodicenne fu costretto ad avvicinarsi al corpo deformato del padre, prima che fosse sotterrato, e uno dei fascisti gli disse: “Questo è quello che succederà a te se seguirai le sue orme…”

Ci limiteremo per ora a questi casi, tra altri mille noti al mondo.

Allo stesso tempo, come molti assassini professionisti, i legislatori fascisti sono teneramente sentimentali. Il nuovo codice penale punisce tra gli altri “reati”:

la tortura degli animali…”

La rivista “Preussische Justiz”, in mezzo al lamento degli operai torturati, si stampa sul viso di boia l’espressione sdolcinata e devota del bigotto:

Proprio la salvaguardia degli animali è una faccenda sentita dai nazional-socialisti, i quali in ogni animale vedono l’opera di Dio…”

Ora la vivisezione degli animali in Germania è proibita. Versando ogni giorno il sangue di centinaia di lavoratori, il fascismo tedesco intercede per le cavie e i conigli.

Le prigioni a Sonnenberg e a Fulsbuettel furono chiuse già qualche anno fa, perché erano prigioni medievali, completamente antigieniche. Là non osavano mettere nemmeno i criminali che avevano compiuto pesanti delitti comuni. A Fyl’sbjutel non ci sono bagni, né fognature. La permanenza in questa galera, soprattutto durante i periodi caldi, diventa una sofferenza insopportabile. Queste prigioni adesso sono state trasformate dal governo di Hitler in campi di concentramento…”

Per tutta la notte cacciano dalle baracche e costringono a fare esercizi di ginnastica, e sei fascisti picchiano disumanamente uno dei compagni con verghe di resina, minacciandolo con un revolver. Essi picchiano soltanto quello e aspettano finché non gli sia opposta resistenza; allora sicuramente ammazzerebbero il compagno. E poiché egli non si faceva provocare, allora essi lo picchiarono ancora una volta crudelmente. A questo compagno fu annunciato: “Voi potete, certamente, lamentarvi, ma questo è del tutto inutile, e noi per giunta possiamo perfino carezzarvi col sacchetto pieno di sabbia…”

Inoltre, c’era il lavoro educativo: ogni mattina, “l’ora della veglia nazionale”, durante la quale in coro cantano canzoni patriottiche. Due volte alla settimana, maccheroni a forma di “svastica”, come educazione nazionale. I maccheroni erano ovviamente insufficienti”.

Lavoro?

Ecco come lo descrive uno del lager di Oranienburg:

Il lavoro, se questo lo si può chiamare così, è la più grande assurdità, alla quale si possono sottoporre sia le guardie, sia i detenuti. Tre giovani operai costringono sei dei loro compagni in disoccupazione a sarchiare l’erba e con la massima velocità. Sei uomini vestiti di stracci si arrampicano per le pietre, scavano gli steli dell’erbetta primaverile, intrufolandosi tra le pietre, dissotterrano minuscole radici, puliscono un pezzo di immondizia e accuratamente lo conficcano di nuovo nella fessura della strada. Non ci sono attrezzi. E’ sottinteso che l’erba da fastidio a nessuno e che non ha nessun senso sarchiarla e dissotterrare le radici.

Dalla fabbrica versano insistentemente l’acqua. Dodici uomini si fanno in quattro per pulire il vecchio edificio. Se esso non splenderà come un palazzo di marmo, sarà colpa loro e li schederanno per inidoneità personale. Essi devono togliere ogni granello di sabbia, ogni scheggia. Sul muro della fabbrica faceva mostra di sé la stella sovietica dipinta dagli operai; bisogna toglierla, si dovesse per questo demolire tutta la parete. Ma qui tutto è completamente insensato, un assurdo spreco di forze; non un lavoro, ma un’occupazione.

Di gran lunga peggio è andare a fare un altro lavoro. Estirpare il bosco vicino. I detenuti vengono spediti nel bosco su un convoglio rinforzato. Essi devono estirpare dalla terra enormi tronchi con le radici. I fascisti spronano le persone con le espressioni: “vecchio maiale”, “maiale rosso”, “vecchia frittata”. Queste espressioni sono prese dal gergo dell’armata imperiale, ma divennero appena più forti e ciniche…”

Quanti uomini ci sono nei campi di concentramento della Germania fascista?

Non meno di 60.000 detenuti politici. Questa cifra cresce ogni giorno. E ogni giorno diminuisce se ricordiamo le numerose “uccisioni per tentativo di evasione” e le sanguinose punizioni simili a quelle che avvengono nelle carceri fasciste.

Così appaiono i campi di concentramento e le carceri istituiti dalla borghesia.

Che cosa attende quelle persone che furono arrestate nel 1931 nell’U.R.S.S. e mandate nei campi di lavoro sovietici? Di questo racconteremo nel prossimo capitolo.

1 Nuova politica economica.

2 Comitato Centrale

3 Complesso militare industriale

4 Società automobilistica moscovita.

5 Preesistente tempio di Cristo Salvatore, appositamente abbattuto per far luogo all’immenso edificio.

6 Commissariato del Popolo.

7 Frusta con nove strisce di cuoio.

Belomor2.

CAPITOLO 2

IL PAESE E I SUOI NEMICI

Torniamo al 1931, viaggiando nei treni stracolmi dall’Oceano Pacifico fino al Turkestan, da Murmansk fino a Baku.
Eravamo più giovani di soli tre anni, ma ecco che i fatti del 1931 sono già diventati cronaca storica. Il flusso degli avvenimenti si è trasformato in storia – e che storia! – non appena si è chiuso alle nostre spalle!
L’Unione Sovietica era senza Magnitogorsk, senza il Dneprogès1, senza la ChTS2. Nei luoghi dove essi sarebbero stati costruiti si vedevano scavi, scheletri di travi incrociate, il bagliore delle saldature elettriche.
Alla Montagna magnetica3 i komsomol’cy vanno al lavoro notturno d’assalto cantando e a righe serrate. Tutti sono eccitati. Questi ragazzi sono giunti al glorioso cantiere, spesso anche a piedi, da ogni dove. Tra di loro ci sono molti abitanti delle campagne e orfani. Tra di loro ci sono gli ingegneri e gli studiosi di domani. Adesso lavorano con accanimento in un gelo che tocca i 40 gradi, fasciandosi con gli asciugamani e i fazzoletti da donna: le tute da lavoro non bastano per tutti, se le portano via i letuny e gli ex kulaki a spasso per il Paese. Di notte è finito il difficile montaggio delle travature. Presto il primo altoforno sarà pronto.
Nel villaggio ucraino il contadino Dovicenko, dimagrito dal tanto rimuginare nelle notti insonni, alla fine si decide a portare il suo bue nella base di raccolta pubblica. “ Il bue lavorava per il contadino, il contadino lavorava per il bue”, borbotta lungo la strada. “E va bene, vedremo come possiamo vivere altrimenti, vedremo cosa ne uscirà. Vedremo”.
Il 24 marzo i colcos del CČO4 uscirono per la prima volta nel campo con le bandiere e con la musica per la prove preparatorie alla semina. I trattoristi dall’MTS5 avevano arato i campi del colcos per tutta la notte.
Nel buio, con le lanterne accese, le brigate attraversano per i campi.
È arrivato il mattino. Il trattorista spenge le lanterne. Ed ecco che all’alba di campagna si aggiunge un nuovo dettaglio: nei campi si spengono i fuochi in movimento, si ode il rumore del trattore. E’ l’alba.
L’operaio senza partito Nikolaev, si alza al fischio della sirena. Cammina sul marciapiede e brontola per il tempo, scambiando un saluto coi conoscenti che escono dai portoni. Un’intera parte della città appartiene agli operai delle Putilov: è la cittadina operaia con le antenne sui tetti, con i fiori e le fasce che riempiono i balconi, le sue cooperative, il suo cinema, un club sul cui palcoscenico si esibiscono i migliori teatri moscoviti e leningradesi.
Nikolaev va alla fabbrica, affrettandosi per arrivare in tempo per la seconda sirena. Non sta pensando né al piano quinquennale né alla rivoluzione mondiale. Ma ecco che sulla strada per la fabbrica, in uno spiazzo, vede un mucchio di ferraglia colmo di acqua sporca. Si infuria. Va dritto al comitato di fabbrica, strillando: “Ma che diavolo ci state a fare voialtri, quando sotto il vostro naso si spreca il ferro?!” – grida.
Egli è uno dei proprietari del paese, è uno di coloro che ne stanno trasformando la carta.
La carta di quest’anno è tutta in movimento.
Questa carta è la foto istantanea degli spazi dell’Unione Sovietica nel 1931. Troviamo regioni enormi in uno stato come di rivolgimento geologico. Tutto è rapito da un movimento impetuoso. Il Nord inizia ad arretrare. Con somma meraviglia dei geografi, in Iakuzia maturerà il grano. Il Mare Artico si farà navigabile.
È di certo la prima volta nel corso della sua storia che l’umanità ridisegna la carta di un paese in così breve tempo. Ci viene spesso fatto l’esempio dell’America contemporanea, così come si è formata nel secolo scorso. Dopo la guerra tra Nord e Sud si sono popolate terre prima deserte. Si costruirono strade. Sorsero enormi città. Un legnaiolo diventò presidente, i negri ricevettero il diritto di cittadinanza. In quattro anni furono sterminati tutti i bisonti. Una nuova razza di persone conquistò l’America. Coltivatori, energici fattori col viso abbronzato come rame, affaristi svegli, intraprendenti fabbricanti.
Essi andavano, affrettandosi a sorpassarsi l’uno con l’altro, i loro furgoni e mandrie correvano per le praterie nell’Ovest, verso l’oro della California, verso i filoni del Lago Salato. Chi per primo pianterà il palo attestante la proprietà, chi per primo occuperà più terra? I negri dall’Africa ed i Canachi dalle isole dell’Oceano Pacifico si imbarcavano nelle stive insieme ai buoi, il bestiame da lavoro delle future fattorie e fabbriche. Erano gli spasmi della colonizzazione, il parossismo della concorrenza, la zuffa di tutti contro tutti; in una tasca l’oro, nell’altra la pistola.
Cinquanta anni dopo, l’umanità vide la più grande potenza capitalista del mondo.
Un confronto fra queste due nascite è assurdo: il capitalismo del Nuovo Mondo e il socialismo dell’U.R.S.S. L’idea a riguardo nasce soltanto perché sia qua che là ci fu una nascita. La loro sostanza è profondamente diversa. L’idea della costruzione del socialismo avanza masse di persone centinaia di volte più numerose di quanto lo furono in America. Non il lucro personale, ma il bene universale, non la morte di popoli interi sterminati dai pionieri, ma la crescita di nazionalità che prima erano oppresse. La sconfitta dei nemici e la loro trasformazione. Noi distruggiamo soltanto i nemici più accaniti e inflessibili. Noi ci sforziamo di trasformare le persone del vecchio mondo che sono stati sorpresi nell’atto di resisterci e questo libro racconta una delle più coraggiose e riuscite esperienze di tale cambiamento.
Là, la discordanza di iniziative; qui, un’unica volontà di partito. Là, il conflitto dell’uomo con l’uomo; qui, il lavoro collettivo.
L’unica volontà di un partito armato delle teorie di Lenin e Stalin: dove e quando nella storia si è visto tutto questo?
E’ straordinaria la coerenza della nostra nuova carta geografica. Vediamo come ognuna delle sue parti cerca di tendere verso l’altra, ed ecco che esse sono congiunte: gli Urali ed il Bacino di Kuznezk, la Siberia ed il Turkestan. La carta del futuro paese senza classi doveva diventare tutta d’un pezzo, come il progetto di una città. I suoi punti che rappresentano i villaggi tendono a diventare cerchietti. I suoi tratti punteggiati, una linea continua.
Sessanta milioni di nuovi colcosiani sono apparsi nel paese. Molti hanno ancora le vecchie abitudini. Sono abituati a vedere il cammino verso una vita felice nel rafforzamento della propria casa, della propria isba. Essi hanno dei dubbi. Non sono abituati a vivere nel collettivo. I kulaki sfruttano i loro dubbi, la loro insicurezza nelle nuove forme di vita. Bisogna aiutare i colcosiani a vederci chiaro negli avvenimenti, spiegare loro il futuro del paese.
Venticinquemila comunisti ed operai sono stati mandati in campagna. Li possiamo incontrare dappertutto: in treno, nel campo, nella casa del soviet rurale. I venticinquemila vanno con il carro per la strada coperta di fango; vanno nelle steppe per la riunione delle brigate per la semina. A tarda notte siedono nelle isbe con i comunisti locali, con l’attivo dei colcos e discutono sul da farsi.
Quest’anno a Nižnij Novgorod, il tram dalla città non va alla fiera, ma da qualche parte nella campagna. Qui, intorno ai giganteschi capannoni della fabbrica, nasce un nuovo centro. Sorgono le strade con i marciapiedi. Le cooperative che si trovano al posto delle baracche alla svelta abbattute, tra qualche mese si trasformeranno in spaziose case in muratura. I cinematografi, dalla fiera che si è svuotata, passeranno alla fabbrica.
Fuori del Circolo Polare, al posto dell’antico camposanto dei Loparì6, sorgerà un’ enorme fabbrica di apatite. Si stanno costruendo vie d’accesso che portano ad essa. Carri merci viaggiano per la tundra. Un branco di renne correva alla montagna, spaventato dal rumore del treno. L’ufficio di progettazione, che si trova ai piedi della montagna di Kukisvumčorr, fa a malapena in tempo a progettare le strade della città in crescita.
Prima la tundra era attraversata da una sconclusionata rete di sentieri, praticati dai cacciatori e dai nomadi. Ora questi sentieri sono stati raddrizzati e vanno al centro delle valli. Qui, al loro incrocio, all’improvviso compaiono le strade.
Gli abitanti della tundra, della taiga, della steppa, delle quali il nostro paese abbonda, sanno che l’era del romitaggio è finita.
Il giovane kazako che è nato nella steppa, pensa a come deve vivere adesso. Egli non vuole essere un pastore. Va attraverso la steppa e, proprio nel mezzo di essa, trova enormi fabbriche e miniere. All’inizio, entra come manovale, dopo tre mesi riceve la qualifica. Lo costringono a studiare in “latynča”, i nuovi caratteri kasaki.
Nel 1931, quelli come lui sono già molte migliaia. Nel 1931 tutte le tribù nomadi che abitano il deserto del Karakum, diventarono stazionarie. Negli abbassamenti dei canali d’irrigazione, sorsero cittadine di iurte. Le carovane di Narkomsem portarono nel deserto gli aratri.
Ma notizie come queste vengono sommerse dal flusso continuo dei notiziari.
L’Adigeja è diventata una regione a piena alfabetizzazione.
Mičurin7 ha costretto le piante appartenenti al clima caldo a vivere nel Nord.
Fu istituito un collegamento aereo dal Pamir. Dove ci volevano sedici giorni di viaggio adesso si vola in due ore e mezzo.
Nell’Asia Centrale, un argilloso terreno incolto, pari alla grandezza dell’Estonia, è irrigato e seminato a cotone.
Lo spazio abitabile del paese si è allargato, sebbene il paese non abbia mutato i confini.
Quest’anno si distingue dagli altri anni, soprattutto per l’orientamento dei lavori pratici, per la precisione della professionalità. “Noi dovevamo acquisire la tecnica”, diceva il compagno Stalin. Se prima alcuni comunisti si mettevano a far tutto, dirigendo “nel complesso”, oggi ognuno deve studiare il proprio campo di lavoro come specialista, conoscerlo, saperlo dirigere.
D’inverno, i corridoi della conferenza regionale del partito sembrano una sorta di ufficio di collocamento. Intorno al segretario di regione, uscito a fumare, si affollano giovani ed anziani comunisti.
Ascolta, Semen. Mandami, per favore, nel Kuzbass”.

Ma tu te ne intendi di carbone?”

Qui ci sono il direttore delle fabbriche, il direttore dell’MTS, i segretari di provincia e di cellula. Le persone, che hanno diretto il paese verso una nuova strada, fumano nel corridoio e inseriscono nel discorso generale le osservazioni che cominciano invariabilmente: “Da noi invece…”. Con un vociare allegro, gli amici sparsi dal partito nei diversi confini della regione, a mille chilometri l’uno dall’altro, si spintonano l’un l’altro. Ecco che stanno lì e si battono spietatamente l’uno con l’altro sulle spalle. Quel peso enorme li eccita, non li schiaccia; con la viva agitazione dei pratici, ascoltano i discorsi e coraggiosamente (a loro stessi toccherà eseguire le decisioni prese) votano, avendo sollevato in alto la tessera di delegato.

Noi siamo rimasti indietro dagli altri paesi all’avanguardia d’Europa, circa cento anni. Se non li raggiungeremo in dieci anni, allora ci schiacceranno”, dice Stalin.

Ed ecco che il paese lavora giorno e notte.

Dnepropetrovsk, il 26 (al telegrafo dal nostro corrispondente), – riferisce la “Pravda”- Le fabbriche di altiforni, forni, laminazioni “Petrovskij e Lenin” erano in debito di 125.000 tonnellate di metallo nei confronti del Paese. Fu dichiarato un lavoro urgentissimo [avral]. Gli epigrammi dei poeti, che fanno parte del rimorchiatore ???, si diffondono nelle fabbriche sotto forma di etichette, sulle sigarette, sui cerini, sulle bottiglie di latte.

Per la città, con l’indicazione degli indirizzi, sono affissi pittoreschi ritratti degli assenteisti. Vengono organizzate trasferte lavorative di abitanti, studenti e soldati dell’Armata Rossa.”
In tutti i cantieri dal 1931 sono raggiunti dei record: il giovane comunista Mikunis, nella fabbrica dei trattori di Charkov, pose in un turno solo 4770 mattoni.
Doronin, Minakov e Gavrilov nel cantiere del reparto di altoforni del gigante di Kuznezk, batterono tutti i precedenti record stabiliti di muratura ignifuga.
Il komsomolec Volkov, al Magnitostroj, battè anche questo record, avendo steso in un giorno 15,6 metri di mattone refrattario.
I minatori degli Urali della brigata di Elev, sulla montagna Magnetica, davano 18 metri cubi di roccia per uomo su una norma di 3 metri cubi. La brigata segnò il record mondiale.
I fonditori della fabbrica metallurgica “Il’ic”, a Mariupol’, che lavorano ai forni n. 4 e 10, producevano 4 fusioni al giorno, e sorpassavano in questo modo la Germania.
Ljuba Voronova, di guida all’MTS – ZCO di Zerdevsk, invece che nei previsti 10 giorni raggiunse la norma in 6, risparmiando così fino a 6 kg di combustibile all’ettaro. La Voronova fu decorata con un ordine di Lenin.
Il trattorista Ivan Bašta (Ucraina) battè il record mondiale di semina con trattore.
Ma i record, per il momento, sono stabiliti più spesso là dove occorre energia giovanile e non cultura ed esperienza di produzione.
Questo avverrà più tardi. Forse già tra un anno.
Nell’STS la catena di montaggio è stata messa in funzione. Essa lavora ad intervalli. Qualche migliaio di operai, sotto i 20 anni, non sanno maneggiare le macchine. Spesso la catena di montaggio si ferma, manca un piccolo pezzo di ricambio.
Ma le persone possono già scrivere nei loro diari, quello che scriveva nel diario il giovane comunista e giornalista Ja. Il’in, morto poco tempo fa:

Vicino alla mia abitazione costruiscono una cittadina studentesca. In essa ci sono dodici fabbricati, ognuno di sei piani. Sono belli, del tutto dotati di vetri, in particolare le trombe delle scale. Quando qualcuno con il bollitore scende giù dal sesto piano, la sua silouhette che salta per le scale è visibile per tutti i sei piani. In questi fabbricati ci sono 5100 stanze, 425 per ciascun lato del corridoio, in ogni piano; 24 contenitori per la spazzatura, altrettanti bagni, 12 кубовая, 2 angoli rossi8. Ed in questa caterva di stanze, vivono, studiano, amano 8000 studenti.
Di tanto in tanto mi vien voglia di guardare come finiscono la costruzione delle case. Faccio il giro del fabbricato, delle persone, delle strade, orgoglioso dei successi del proprio lavoro. Tutto è mio e di tutto questo sono responsabile.”

Questa è la sensazione del padrone del paese, del cittadino del mondo. Le nuove città, costruite quest’anno, sono piene di contrasti.
Città, dove non c’è quasi neanche una persona che non lavori. Le strade sono costituite da case dell’ultimo modello. Gli altoparlanti, per le strade, strillano della semina primaverile.
In qualche settimana si innalzano le case. Accanto al campo di cavolo viene costruito il marciapiede asfaltato. Nel fossato si ammassano ancora le baracche grigie e scure.
Gli alberghi sono pieni. Le brigate d’assalto dal centro pernottano negli uffici, sui tavoli coperti di vetro, dopo aver tolto da essi i calamai ed aver steso il cappotto.
Il nuovo mondo è in preda a un precipitoso avanzamento, ma le persone ad esso ostili sono ancora molte. La loro opposizione può essere di molti tipi.
Nella cooperativa di fabbrica, hanno portato sui carri una partita di conserve di carne. La vendita va animatamente. Ma alla sera le donne con un grido si riuniscono alla cooperativa e bersagliano di barattoli di carne aperti il venditore, che si nasconde sotto i banchi.
Nei barattoli si trovarono conserve maleodoranti di frattaglie, con denti, capelli, organi sessuali di buoi. Ne seguì un’inchiesta. Si chiarisce che le conserve erano state preparate dai sabotatori che dirigevano le fabbriche di conserva.

Non fa niente, i compagni si sbaferanno anche questo”, dice uno di loro.

Abbiamo deciso che il tempo di agire è arrivato”, dice un menscevico moscovita.

I cadaveri stranieri già cuciono nuove divise e riparano quelle vecchie, essi ricordano in fretta il rituale dell’incoronazione, fanno incetta di onoreficenze. “I contrasti di classe si inaspriscono, – dicono – questo significa che il mužik russo non è già più nella condizione di sopportare la collettivizzazione; il mužik è stufo che del bestiame altrui calpesti il suo prato; il mužik reclama il fucile. Il lavoratore è stanco di aridi sermoni, con mille scioperi egli risponderà ai nostri proclami.”

I nemici ai confini preparano i trasporti delle armi. Si annoiavano questi obici e mitragliatrici e fucili nei depositi; è l’ora di farli scorrazzare per le pianure russe, di tuffarli nelle onde del mare e di farli arrampicare per le montagne del Tien Scian, Caucaso, Urali e per la calda catena montuosa Sikotè-Alin’. Sui vagoni è scritto: “con prudenza”. I contrabbandieri sono già riuniti e passano i fucili attraverso i confini dell’Afghanistan, della Persia, attraverso i villaggi, la cavallina smagrita trasporta i fucili alla bica di scuro fieno, circondata da verghe di tremoli.
Nei giornali ci sono frequenti comunicati sulle azioni dei parassiti e sabotatori. I lavoratori, che vanno in campagna, sono pronti ad incontrarsi con il terrorismo dei kulaki. Arrivando in fabbrica per il turno della mattina, non di rado si trovano le macchine rotte, le officine lordate, il materiale guastato. Un uomo sconosciuto ha allentato le viti.
Uno scrittore straniero, che è stato in una delle nostre fabbriche nel 1931, dice che la situazione gli ricorda una condizione di guerra. Gli operai guardano con sospetto gli sconosciuti. Alla vista dell’avaria, essi cercano con lo sguardo il sabotatore o la spia.
Ognuno di quelli che furono inviati per il paese, nel 1931 potrebbe scrivere un libro straordinario.
Egli viaggiava lungo il Volga. Viaggiava anche per l’Asia Centrale. Correva a bordo di un camion per le terre del gigantesco sovchoz9, dove lavorano i tedeschi, i baschiri e i cuvasci. Egli saltò a cavalcioni in cima alla prima balla di cotone egiziano, portato vicino al Kurgan-Tjub. Il suo cavallo è morto di diarrea ematica e lui ha dovuto proseguire a piedi. Nei villaggi, non era riuscito a trovare mezzi di trasporto; i cavalli erano stati spediti nella valle per trasportare il cotone. Egli vedeva: la gente in preda come a una sorta di rimescolamento. Avendo perso il solito terreno sotto i piedi, il mužik Fedin, forte e intraprendente, si trasformò in un uomo disperato che manda tutto al diavolo per ubriacarsi. Il ragazzo ventenne, pastore, che adesso svolge mansioni di segretario nel colcos “Aksam”, Pasa Ivanov, diventò un solido, ragionevole mužik.
Un prete, padre Fjodor, si tagliò i capelli davanti ad un frammento di specchio, indossò un pellicciotto e con una valigetta in mano, s’incamminò verso la stazione ferroviaria. Dopo due mesi i compaesani lo incontrano nel cantiere, in una squadra di sterratori rinomata per le sbornie e le risse.
Ora è possibile notare le molle originarie che muovevano le decorazioni delle vecchie usanze, della passata morale. Esse sono diventate visibili soltanto nel tempo del cambiamento.
Da qualche villaggio, dove da poco sono organizzati i colcos, ecco cosa riferiscono:
Villaggio Kubasovo. Organizzato il colcos “Via per il comunismo”. I colcosiani lavorano nei campi sin dall’alba. Non appena essi escono nel campo e le loro isbe si vuotano, persone sconosciute irrompono nei loro ripostigli e granai e portano via tutte le provviste fatte dai colcosiani. Il presidente del soviet del villaggio è sempre ubriaco. Siede tutto il giorno in casa di Antip Fiòdorov, il fratello del quale, il kulàko Nikolaj Fiòdorov, fu espulso dall’agitazione controrivoluzionaria.

La vedo brutta per voi, – disse Antip Fiòdorov alla colcosiana Nikitina che aveva scritto una petizione al comitato distrettuale del partito, – voi raccogliete dalla terra ghiacciata le patate per il colcos, ma arriveranno delle care persone e porteranno via tutto. Mi dispiace per voi. Lasciate il colcos.”

La notte del novembre 1930, Antip Fiòdorov fu preso nel momento in cui, insieme al figlio di Nikolaj Fiòdorov, portava via dalla isba del colcosiano Žarov, coperte e sacchi di pane.
L’incaricato del GPU arrivò nel villaggio per l’esame dei fatti. Era calmo e posato. Molti casi simili gli erano noti. Egli assicurò ai colcosiani che se Fiòdorov un bel giorno ritornerà nel villaggio, allora sarà un altro uomo. Ma fino a quel momento, passerà molto tempo.
Un viaggiatore di passaggio incontra spesso nella fascia meridionale della regione delle terre nere, carri trainati da mucche.

Dove sono i vostri cavalli?”, egli chiede al padrone del carro.

Sono morti”.

Dal giornale locale veniamo a sapere che il veterinario della provincia, Vasil’ev, era un membro di un’organizzazione di sabotaggio. Egli inoculò il cimurro a 6.000 cavalli.

E dov’è questo veterinario?”

L’hanno portato da qualche parte, alla Montagna dell’Orso. Non sappiamo cosa sia questa montagna…”

Nel sovkhoz intitolato a Petrovskij, ignoti hanno aperto le porte dei depositi di ortaggi. Questo accadeva in febbraio. In una notte gelarono tutte le scorte di verdure.
All’alba, prima dell’inizio della semina, Pavel Mirošnikov, un mužik cupo e irsuto, assunto la settimana prima nel sovkhoz come guardiano, aprì le cisterne. In mezz’ora uscirono 470 quintali di kerosène. Al mattino, nessun trattore poteva uscire per l’aratura, per mancanza di combustibile.

Perché l’avete fatto?”

E chi lo sa!”

Tutta la notte, prima del reato, il guardiano si era aggirato ubriaco per il sobborgo operaio urlando:

L’angoscia mi perseguita, come sono ridotto, fratelli. Ve ne ricorderete del guardiano.”

Tra un mese incontreremo Miroscnikov di nuovo. Siede alla finestra di una baracca di tavole. Attraverso un vetro ricurvo pieno di bolle, si vedono rocce deformate, acquitrini nebbiosi e i pini bruciacchiati del lontano nord.
Nella regione del Kharkov, nel villaggio Pokrovskij, il figlio del gendarme sparò alla pioniera10 Nadezda Rinda, di 13 anni. La ragazza aveva raccontato alla riunione del colcos, di come quello convincesse i colcosiani a “battersi perché tornassero i vecchi tempi”. L’omicida fu fucilato; il suo compagno, che faceva la guardia sulla strada mentre si commetteva l’omicidio, fu condannato a 10 anni sulle Solovki.
I colcosiani che venivano dal colcos Kamenskij, dicevano:

Bisogna uscire dal colcos. Non ne possiamo più”

Il segretario del comitato distrettuale del partito, arrivato nel colcos, scoprì cose straordinarie: la direzione del colcos Kamenskij aveva creato un “tribunale da campo” contro la violazione della disciplina del lavoro. In una settimana il tribunale si era riunito quattro volte: si accusavano i colcosiani di violazione della procedura dei lavori.
Li condannarono alla fustigazione.

Soltanto per mostra, compagno segretario. Battevano con i mestoli, non con le verghe. Dopo un paio di colpi i mestoli si spezzavano…”, così disse il presidente di questo tribunale, Dobrynin.

Il presidente del tribunale fu arrestato. Furono arrestati anche due organizzatori dei “tribunali agricoli”. Questi erano ex-kulaki, uno di loro era maestro del coro della chiesa.

Siete andati nei colcos”, diceva uno di loro, “così avete visto come vi hanno caricato di lavoro, ora vi ricrederete.”

Ecco il principio degli avvenimenti a Kamenskij e anche in qualche regione del Basso Volga. Il kulak si maschera da difensore della severa disciplina. Egli “si era sbagliato”, “aveva esagerato”, ma nutriva “buone intenzioni”.

Dite, dov’è ora il presidente?”

L’hanno mandato in una certa Kem’”.

In una rivista di scienze agronomiche viene pubblicato un articolo teorico nel quale si dimostra che le direttive del governo sull’introduzione dell’aratura mattutina nella regione degli Urali sono sbagliate. Le condizioni climatiche condannano a morte certa la semina precoce. In seguito, le conclusioni di questo articolo furono smentite dalla pratica, ma in una serie di regioni la semina precoce fu abbandonata. Un errore increscioso, non è vero?
Ma l’autore dell’articolo, che dopo qualche mese fu arrestato per attività in un’organizzazione controrivoluzionaria, depone: “…Tra gli altri, allora io scrissi l’articolo sul danno della semina precoce; la semina del mattino avrebbe rafforzato la produttività nei colcos.”

Un proclama, stampato a Rostov e preparato per la distribuzione nei colcos cosacchi, iniziava con le parole: “Abitanti del Placido Don, sollevatevi contro gli scrocconi comunisti…”
Più avanti venivano menzionati: “la madre Kuban’ e il padre Don” e i bolscevichi che “rovinano i villaggi per sterminare i cosacchi”. L’autore cominciò imbucando mille di quei proclama nelle cassette della posta. Fu arrestato e rivelò l’esistenza di una piccola organizzazione clandestina.
Egli arruolava con l’inganno. “Sono un membro di un’unione con molte migliaia di iscritti “Sole”, vuoi aderire?”. Mentre si riunivano in un appartamento, bevevano vodka, mangiandoci sopra peperoni ripieni. Fra queste persone, c’era un giornalista di Rostov, Babiev. Con lui ci incontreremo nei prossimi capitoli di questo libro.
Una notte qualcuno sparò alla finestra della casa dove aveva preso alloggio un’agitbrigata. Nel giornale balenò la notizia: “Preso il kulak Lederkin, che ha incendiato dolosamente il club”. Anche il nome di Lederkin incontreremo in questo libro.
Provate quest’anno a trovare un nomignolo che indichi una solitaria provincia remota, dite qualunque città: Cukloma, Poscechon’e, Cerdyn’. Ormai non viene fuori niente di offensivo. La remota provincia non esiste più. Le strade e le case di queste cittadine sono tali e quali alle case e strade di tutte le altre, gremite di forestieri, compagni, operai in trasferta, studenti.
Nel giornale “Burjato – mongolskaia pravda”, nella prima pagina il compagno Kamba Dordgi, scrive del futuro kombinat di Angarsk e nell’ultima, degli ex lama buddisti che “davanti al viso dei lavoratori di tutto il mondo”, come scrivono essi, annunciano la loro rinuncia alla religione lamaista.
Quando il miliziano arrivò alle cerimonie dei dervisci, piene di canti e di urla, nella moschea di Šach-Zinda a Samarcanda e dichiarò proibiti i culti orgiastici dei dervisci, nessuno protestò. Il famoso “fanatismo” asiatico si rivelò una bufala.
Ma quando cominciarono ad organizzare i colcos, i grandi latifondisti presero gli antichi fucili d’acciaio e i nuovi fucili inglesi e se ne andarono sulle montagne, reintegrando, così, bande di guerriglieri.
Secondo le parole dei viaggiatori, in Russia c’erano delle tribù nomadi che sapevano contare solo fino a venti. In Russia vivevano 140 popoli.
Un vescovo nel 1912 si lamentava del fatto che i missionari in 50 anni non potevano infondere agli indigeni della Siberia i concetti “Dio” e “morale”.

Questi sono dei veri selvaggi – egli scriveva – che pregano Dio così: “Ehi, Dio, aiutami, mamma santa aiutami, santi Nikolka, Proska, Innokeska, aiutami, e se anche non mi aiuti, a me che mi frega”. Perfino i migliori dei korjaki che vivono nella baia di Penzina, ripetono le parole del pastore “comandamento”, “onestà”, “condotta morale”, ma non ne possono capire il senso.”

Nella lingua dei čukči esistono 23 termini per la definizione del tricheco di diverse età, 40 termini per i diversi aspetti dei banchi di ghiaccio e degli iceberg, 16 diverse espressioni che definiscono i puntali per l’arpone, ma le parole “ruota”, “macchina”, “scuola” sono intraducibili nella lingua della Čukotka.
Nel 1931 con il Zentrisdat furono stampati libri di alfabetizzazione e libri scolastici in tutte le principali lingue dei popoli arretrati. I concetti “proletariato”, “rivoluzione”, “collettivo” entrarono nelle lingue delle tribù della Siberia.
Questa realizzazione dell’idea del nuovo mondo non incontra ostacoli insormontabili. La nuova struttura sociale ed economica provocò un rapido sviluppo della lingua. Tra i Tungutsi11 , che già da due anni hanno organizzato cooperative di cacciatori, la parola “collettivo” attecchisce più velocemente di quanto facesse la parola “Dio” tra i primitivi parrocchiani dei missionari.
Milioni di persone si sono messe in moto. Il grande partito bolscevico li porta, li guida, li organizza giorno dopo giorno.

Nabidzon fa i miracoli”, scrive il giornale tagiko “Kurgan Tjube”. “Qualche giorno fa richiamammo la vostra attenzione sul migliore operaio della meccanica debole locale dell’MTS, Nabidzon Atachanov. Ecco che quest’uomo è degno della sua patria socialista. Nel proprio dzon-dire egli ha arato negli scorsi giorni 28 ettari del deserto di Habarovsk. E questi ettari erano tutti di pietrisco, pietre e arbusti.”

È stata annunciata la marcia verso l’indipendenza cotoniera dell’Unione Sovietica. I Fordson12 comparvero nei campi gialli della Fergana. Nelle università dell’Asia Centrale studiano 60.000 studenti autoctoni. Kišlak Dušanbe in 30 mesi si è trasformata in cittadina capitale ed è unita al resto del mondo da una ferrovia. I Tagiki13 costruiscono un canale d’irrigazione dove lavorano 24 scavatrici. Tutta l’Asia Centrale si costruisce ex novo.
E così, come nelle altre parti dell’enorme campo di costruzione dell’U.R.S.S., i nemici del nuovo mondo sono anche nell’Asia Centrale.
Il giornale di Taksent “Il komsomolec d’Oriente”, nel maggio del 1931 informa del professore Sagu, che ha spiegato agli studenti le cause della malattia “vaginite” con le parole: “Questa malattia si è diffusa nelle fabbriche e nei colcos con l’introduzione delle competizioni sociali e delle squadre d’assalto…”. “Tutta la nostra gioventù a 20 anni diventerà impotente e la colpa è di questo sovraccarico”. Così parla il professore. Tuttavia, la statistica delle nascite lo smentisce.

Gente dell’Islam, è arrivata la fine! Questi sono gli scritti dei profeti; vi ingannano e vi privano dei beni”, scrive Ibrahimbek, capo dei guerriglieri uzbeki, nell’appello ai popoli dell’Asia Centrale, steso nella riunione dei guerriglieri in Afghanistan.

Nelle sabbie del deserto, con una lettera dal capo dei guerriglieri del Turkmènistan Dzunaid-Khan, con dieci fucili inglesi e rotoli di banconote, è stato catturato il guerrigliero Kuli Machmudov.
Nella stazione a Novoj Bukar, si possono vedere cinquanta detenuti. Essi hanno vistosi caffettani, turbanti rossi e fazzoletti di indiana alla cintura. Stanno accovacciati, appoggiati alla parete del marciapiede. Vicino a loro stanno quattro soldati di guardia.
Il mullah Kur-i-Rahim leggeva il Corano nelle bande. Risokov, segretario dello scirkat, ha speso i soldi pubblici. Mirjatim, guerrigliero. Abdul Gheosov, guerrigliero.
Tutte queste persone le ritroveremo nei capitoli successivi.
In una delle regioni costruiscono un canale. Deve essere pronto a primavera. Esso deve dare l’acqua a quelle terre, dove la gente nomade del Turkmènistan ha accettato di stabilirsi. I lavori si protraggono giorno e notte. Se l’acqua non ci sarà, l’impresa della precipitazione dei nomadi in questa regione sarà fallita almeno per i prossimi due anni. Arriva il giorno dell’inaugurazione. Da tutti gli angoli si sono riunite folle di uomini a cavallo, abitanti del posto. L’orchestra si è preparata a suonare le fanfare.
Ma l’acqua non scorre all’imbocco dell’aryk14.
Qual è la causa del fallimento?
Il collaboratore dell’ufficio di progettazione V. P. Paskov, dice che era inesatto lo studio del rilievo della steppa. Colpevoli le carte redatte dalle tipografie nel 1890. Se è così, non c’è neanche con chi prendersela!
Si chiarisce uno strano particolare. Paskov è un esperto irrigatore. Prima della progettazione del canale, fu realizzata un’accurata esplorazione della traccia, ma durante i lavori, non si sa perché, si usavano i dati del 1890.
Paskov fu arrestato.
Giudice: “Dite, cittadino Paskov, su che cosa facevate assegnamento?”
Paskov: “La stanzializzazione è un bluff. Questo è un lavoro inutile.”
Giudice: “Era importante per voi dimostrare che la stanzializzazione fosse un bluff e per questo avete progettato il canale in modo sbagliato?”
Paskov: “Sì, non dovevo agire così. Riconosco il mio atto.”

“… Dal professor Risenkampf ricevetti il compito di presentarmi alla base per il sabotaggio al Gosplan15 dell’U.R.S.S., dal professor König, che mi mostrò il piano dei lavori per il sabotaggio nella repubblica sovietica del Dagèstan, che consisteva nel ritardo della sistemazione delle tribù di montagna nelle regioni basse. Un mezzo per questo fu l’indugio dei lavori di prosciugamento e d’irrigazione.”

Così depose, dopo brevi tentativi di tergiversare, il giovane ingegnere Vjazemskij. Egli è figlio e nipote degli ingegneri delle ferrovie. Nel fervore della lotta di classe, distrusse il lavoro dei suoi avi, prolungato e colossalmente dilatato dei comunisti, per la conquista dei deserti e dei territori di confine. Incontreremo ancora Vjazemskij e faremo la sua conoscenza.
Altri dieci ingegneri davano testimonianze per quella stessa faccenda dello Sredasvodkos:
Verzbizkii: “Per l’esecuzione degli atti di sabotaggio ricevevo, in tempi diversi e sotto vari aspetti, grosse somme di denaro.”
Anan’ev: “Dal 1928 avevo aderito all’organizzazione di sabotaggio Usvodkos. Organizzavamo la sproporzione e disfacevamo l’apparato.”
Budassi: “Essendo stato legato in passato a Čaevoj, un grande capitalista privato, condividevo i suoi interessi. Nelle condizioni del cantiere sovietico io cercavo di di creare condizioni di lavoro simili a quelle prerivoluzionarie, il che poteva essere realizzato per mezzo del richiamo di capitalisti stranieri. Per questo, io aderii al gruppo di sabotaggio dell’Asia Centrale.
Sibrik: “Riconoscendo l’esistenza del sabotaggio organizzato nel campo dei servizi idrici, io mi dichiaro colpevole.”
Tutte queste persone, l’energico Verzibizkii, il viveur e affarista Anan’ev, il pratico di tutti i giorni Budassi, il giovane Sibrik che soltanto più tardi, e in circostanze eccezionali, ha manifestato doti di ingegnere; incontreremo ancora tutte queste persone e seguiremo attentamente il loro destino, cambiato bruscamente.
Distruggendo la resistenza generale dei nemici del socialismo, il partito porta il paese e le persone avanti. Oggi deve essere fatto più di ieri e domani di più di oggi. Ora tutti si sono ritrovati talmente tanto lavoro che 160 milioni di persone non bastano.
Tutti quelli che un tempo avevano lavorato nei trasporti sono assegnati alle ferrovie con una disposizione del governo. Gli studenti di agraria sono spediti ai lavori di semina. Nell’ultima pagina dei giornali leggerete le inserzioni: “Il Consiglio di Kastorg richiede cinque computisti, ragionieri, dieci impiegati d’ufficio”, “Cercasi dottori, medici e inservienti per impiego nel nuovo ambulatorio. Condizioni da accordare”.
Davanti alle stazioni si trovano gli striscioni con su scritto a grandi lettere: “Qui si selezionano carpentieri, falegnami, sterratori, muratori. Le tariffe sono stabilite secondo l’ambito. Provvigioni di 1° categoria”.
Nei chioschi di destinazione lavorano gli arruolatori spediti dalle sedi dei vari cantieri per le stipulazioni dei contratti con gli operai. Non volete andare in Kamčatka o a Sachalin?
L’LCO e la società di Sachalin approvvigionano splendidamente i cantieri periferici. In gennaio da Habarovsk per l’Amur e per i ghiacci dello stretto dei Tatari, è partito un convoglio di 1500 cavalli. Tutti i carrettieri, dopo aver consegnato il carico, firmarono il contratto e rimasero a Sachalin.
Nel piazzale della stazione si trova un grande accampamento di passeggeri. Le persone e i carichi vanno a Magnitogorsk e a Kuznezk, a Oriente. Dalla Siberia portano il pane.
Succede che i treni ritardano ore e giorni. L’addetto manda il treno merci di itinerario con destinazione al Magnitostroj, prima dei treni passeggeri e dei treni espressi.

I biglietti sono in vendita nell’ex ufficio postale”, risponde il cassiere nella stazione siberiana intermedia. Le ferrovie non fanno in tempo a trasportare tutte le persone che si spostano in continuazione, adesso, per il paese. Quello che si sposta senza una particolare necessità, aspetta per alcuni giorni.

Tu da dove vieni?”

Da Karaganda e vado negli Urali. E tu?”

Dagli Urali e vado a Karaganda. Mi sono stufato del solito posto.”

Ecco una conversazione di due nomadi professionali che è possibile sentire spesso. Questa è la boheme produttiva del 1° piano quinquennale; persone strane che hanno portato di cantiere in cantiere i migliori aneddoti, ritagli di giornali con le proprie fotografie, i racconti accesi della produzione. Un’insolita miscela di arruffoni ed entusiasti.

A Karaganda mostrai loro con che classe si lavora. Cominciai a sgobbare; la terra tremava. Viene da me il responsabile compagno Petrov in persona e dice: “Come premiarti? Sei il capo dei nostri operai d’assalto ed io per te non risparmio la manifattura. Ma i vecchi si sono fatti invidiosi…”

Queste persone che cambiano spesso lavoro, con i loro spostamenti rovinano i piani degli uffici del personale.
In fabbrica, qualche volta bighellonano, qualche volta lavorano bene. Comunque, sempre a tratti, con slanci “di entusiasmo”. Essi partecipano ai lavori d’assalto e all’improvviso, lasciando l’opera a metà, se la svignano e vanno da un’altra parte del paese. Ma i giovani nella fabbrica non si arrendono e portano l’assalto fino alla fine, completando sia il loro lavoro che quello dei disertori.
Spesso nelle fabbriche e nelle istituzioni si incontrano persone trasandate, frettolose, con la barba di alcuni giorni. Hanno cerchi rossi sotto gli occhi e sono fieri della loro barba e del loro aspetto malridotto. Questo tipo di lavoro presto sparirà, ma nel 1931 lo si poteva incontrare non di rado.

(Continua)

1 Dneprògres: prima grande centrale idroelettrica dell’Unione Sovietica, costruita dai detenuti negli anni ’30.

2 Kharkovskij tractornyj savod: fabbrica di trattori costruita nel 1931.

3 Magnitnaja gora: la “montagna magnetica”, da cui il nome della città Magnitogorsk, nasceva per diventare il maggiore complesso metallurgico del paese.

4 Regione centrale delle Terre Nere, ha come centro Voronez.

5 Stazioni di macchine e trattori.

6 Antica denominazione dei Saami orientali.

7 NOTA

8 Angoli in cui troneggia il ritratto-icona di Stalin.

9 Azienda agricola statale.

10 Membro dell’organizzazione infantile dell’U.R.S.S.

11 Popolazione dell’Altopiano della Siberia Centrale.

12 Marca di trattori

13 Popolazione delle regioni montuose del Tagikistan

14 Canale di irrigazione.

15 Comitato Statale per la pianificazione.

Belomor 1.

CAPITOLO 1

Cap. 1

Maksim Gor’kij

LA VERITA’ DEL SOCIALISMO

Sono già dieci anni che il partito dei bolscevichi, incarnazione della ragione e della volontà del proletariato dell’Unione delle Repubbliche Socialiste Sovietiche, si trova a compiere senza Vladimir Il’ic Lenin il proprio lavoro potente e meravigliosamente produttivo. Se ne è andato il geniale evocatore dell’autocoscienza rivoluzionaria della classe lavoratrice, ma col passare degli anni il lavoro rivoluzionario svolto del partito di Lenin nel campo dell’economia e della cultura arricchisce con i grandiosi risultati della sua guida un paese in passato semiselvaggio e contadino; con il passare degli anni si manifesta in guisa sempre più vivida l’ampiezza e il significato del lavoro organizzativo di Il’ic, il meraviglioso coraggio del suo pensiero, l’esattezza dei calcoli e il raro dono di prevedere il futuro.

Il grande uomo che i nani chiamavano “sognatore” e, mossi dall’odio, coprivano di scherno volgare, questo grande uomo diventa sempre più maestoso. Tra tutti i “grandi” della storia universale, Lenin è il primo la cui importanza rivoluzionaria cresce e crescerà continuamente.

In guisa altrettanto incessante e rapida cresce nel mondo l’importanza di Iosif Stalin, dell’uomo che avendo interiorizzato più profondamente di ogni altro l’energia e il coraggio del suo maestro e compagno, già da dieci anni ne fa degnamente le veci al più arduo dei posti di guardia: alla guida del partito. Più profondamente di ogni altro egli comprese che verace e inflessibile fonte di creatività rivoluzionaria può essere solo l’energia proletaria in tutta la sua verità e purezza, la lineare energia scoperta e innescata da Lenin. La volontà perfettamente organizzata, la mente sagace del grande teorico, l’ardimento di chi è portato al comando, l’intuizione dell’autentico rivoluzionario capace di orientarsi con perspicacia nella complessità delle qualità umane e, educando le migliori di tali qualità, si batte senza quartiere contro quelle altre che impediscono alle prime di svilupparsi al massimo delle potenzialità: tutto ciò lo fa degno di stare al posto di Lenin.

Il Proletariato dell’Unione Sovietica è fiero e felice di avere guide come Stalin e molti altri fedeli seguaci di Il’ic.

*

Al novero delle imprese “d’onore e di gloria”, “di valore e di eroismo” ormai comuni nel nostro paese si è aggiunta la creazione del canale Mar Bianco-Mar Baltico.

Si tratta di una delle più splendide vittorie riportate dall’energia collettivamente organizzata degli uomini sugli elementi della rigida natura settentrionale. È allo stesso tempo un esperimento magnificamente riuscito di trasformazione di massa degli ex-nemici del proletariato dittatore e della società sovietica in qualificati collaboratori della classe lavoratrice e perfino, in entusiasti sostenitori del lavoro coatto di Stato. Sbalorditiva è la vittoria velocemente riportata sulla natura ostile all’uomo dall’impeto congiunto di migliaia di unità eterogenee ed estranee, ma è ancora più sbalorditiva la vittoria che hanno riportato le persone su se stesse, sulla propria personalità resa anarchica dall’ancora recente dominio bestiale del borghesume autocratico.

Ancora una volta ha brillantemente dimostrato la propria validità la politica di lavoro correzionale assunta dalla direzione politica dello Stato ed elevata a sistema pedagogico grazie alla predicazione dell’unica verità del socialismo, ugualmente salvifica per ognuno, e del valore formativo del lavoro socialmente utile. Essa era stata dimostrata ancora prima nelle numerose colonie e comuni di lavoro della GPU1, ma questa è la prima volta che tale sistema di “rieducazione” delle persone è stato adottato con tanto ardimento, in scala così grande.

Ancora una volta il proletariato dittatore ha ricevuto il diritto incontestabile di dichiarare: “Io combatto non per uccidere, come fa la borghesia, ma allo scopo di risuscitare il popolo lavoratore ad una nuova vita; io uccido soltanto quando non è più possibile estirpare dall’uomo la sua antica abitudine di nutrirsi di carne e sangue umani”.

Gli stessi elementi socialmente malati e “pericolosi” raccontano in questo libro il proprio processo di guarigione. Ma molte esperienze che essi hanno vissuto non sono in grado di raccontarle per una ragione semplice e puramente tecnica: a loro manca il bagaglio linguistico necessario per esprimere in forma compiuta i molteplici e complessi processi di “riforgiatura” dei loro sentimenti, delle loro idee e abitudini.

Essi dicono all’unanimità che da principale e originario impulso alla loro trasformazione funse il semplice rapporto umano con gli organizzatori del lavoro, i rappresentanti della GPU guardie del proletariato, persone dalla ferrea disciplina e dotati di quella stupefacente complessità spirituale che si ottiene solto come risultato di una dura e ampia esperienza della vita, come risultato di un contatto duraturo con i “socialmente pericolosi”, con i nemici del proletariato inconsapevoli e consapevoli.

Cos’altro, oltre questo rapporto umano nei propri confronti, potevano vedere “i miliziani del Canale”, e di cos’altro ancora essi non sanno raccontare?

Ad essi fu mostrato che proprio loro, gente da poco, frequentatori di bettole dove venivano rapinati, una volta organizzatisi collettivamente per la battaglia contro l’incrollabile tenacia della natura, potevano sconfiggere velocemente la sua resistenza agli obiettivi del proletariato che cambia il mondo. Il romanticismo, sempre proprio dei figliastri e dei rinnegati della società, – di qualsiasi mestiere o ceto siano, – non è che una malattia suscitata da offese ed insulti. Per una causa o per l’altra, la società dei borghesi “benpensanti” espelleva uno dei suoi elementi e con ciò stesso metteva la persona faccia a faccia con il suo “io”. Occorre possedere una buona dose di autostima per non umiliarsi fino a una meschina vendetta contro i semi-idioti, e occorre saper pensare per trovare una causa generale e unica di tutte le offese, per tutti gli insulti e le ingiustizie di cui la vita borghese è ricca in modo tanto vergognoso. Ma la borghesia non può coltivare nell’uomo l’autostima: sebbene tutti i borghesi siano “padroni”, nella società di classe ogni uomo è inevitabilmente il lacchè di qualcuno. La borghesia non insegna a pensare, bensì a credere in cose che essa stessa contraddice in continuazione in tutta la pratica quotidiana. Se l’uomo messo faccia a faccia con il suo “io” e con ciò ricacciato “in se stesso” possiede un carattere più o meno saldo, gli sarà facile sentirsi non soltanto un escluso, ma un uomo straordinario, un eroe. Qui c’è l’ “io” e qui c’è il mondo, nel quale per me non c’è posto; dunque il mondo è mio nemico. Su questa falsariga sempliciotta è scritta tutta la chiassosa ed ingenua musica dei filosofi dell’anarchismo.

Questo si capisce, è un romanticismo di alto livello, “di prima classe”. Nella maggioranza dei casi l’affare si spiega in modo più semplice: alcuni ritengono che sia più vantaggioso essere ladri anziché lacchè. Altri diventano “nemici della società”, perché la vita borghese è noiosa, miseramente mediocre; perché il contrasto tra la follia dei ricchi ed il cretinismo degli indigenti è troppo evidente ed offensivo.

In molti, il romanticismo naturale della gioventù degenera in crudele e anarchico romanticismo della disperazione e della ferocia, ossia in banditismo. Se “la mia vita vale un copèco”2, perché la vostra vita è più preziosa e ne vale due?

Troppo spesso il ricco è più meschino del povero, e sempre, per quanto si arrabatti a caccia di guadagno, si vede chiaramente che è un parassita. Insomma, le cause che portano alla fabbricazione dei “socialmente pericolosi” nella società borghese sono talmente eterogenee e – spesso – talmente grette da sfuggire ad ogni tentativo di classificazione e spiegazione. Il romanticismo dei “fuorilegge” non si manifesta soltanto nelle loro forme di interrelazione, ma è riflesso in modo estremamente evidente nelle loro canzoni.

Inserito nell’atmosfera di un grande lavoro diretto a uno scopo riguardante tutti e lui stesso, certo il fuorilegge anarchico non si accorge subito di come il suo astio verso le persone si trasforma in lotta con la roccia, la palude, il fiume. E tuttavia egli inizia a sentirsi utile abbastanza velocemente, e cominciare a sentirsi utile oggi significa riconoscersi più importante di quanto lo fosse ieri. L’uomo è stato educato dalla storia come essere portato per il lavoro efficiente e, se posto nelle condizioni di un libero sviluppo delle sue molteplici capacità, egli inizia inconsapevolmente a sottostare al proprio scopo essenziale: cambiare le forme e condizioni della vita in conformità con le sue esigenze in crescita continua, suscitate dai successi del suo stesso lavoro. Cos’altro vedevano i “socialmente pericolosi” sul cantiere del Canale Mar Bianco-Mar Baltico?

Nella grande maggioranza essi si erano presentati al lavoro con un grado di istruzione scarso o nullo. Videro che nessuno precludeva loro le ricche possibilità che l’istruzione dà all’uomo. Vuoi imparare? Impara. Anzi, non basta: devi imparare. Essi erano nati e vissuti in una società dove la distribuzione del sapere era in mano ai padroni e dipendeva dalla loro volontà: loro era il diritto di stabilire i limiti della crescita intellettuale dei figli degli operai e dei contadini. In questa società la conoscenza in quanto tale, come capacità di ricerca creativa finalizzata a preservare la vita e alleggerire le fatiche dell’uomo, è poco apprezzata. Essa è apprezzata solo come via verso la libertà di lucrare ricchezze. I bottegai che governano la vita sono sempre interessati alla crescita numerica degli acquirenti, ma non provano alcun particolare desiderio di vedere nel proprio ambiente i critici della loro volgare, sporca, misera vita.

Sul Canale Belomorskij persone semianalfabete impararono a capire la verità da gente della propria classe che l’aveva già compresa. Ciò dava risultati stupefacenti. Uomini semianalfabeti vedevano che accanto a loro lavoravano vecchi studiosi ed anziani ingegneri, nemici della classe operaia, e vedevano come queste persone intelligenti e colte – nemici – si trasformavano nei più energici collaboratori degli operai, agivano “d’assalto” senza risparmiare le forze e lavoravano “secondo coscienza” e non “per paura”. Centinaia di socialmente malati e “pericolosi” si iscrivevano nelle squadre d’assalto, diventavano miliziani del canale interessati in modo diretto e cosciente al successo dell’impresa.

Là c’era un discreto numero di kulàki agrari. Anche fra loro ce n’erano molti che lavoravano bene. Inizialmente erano spinti a ciò dalla fiera coscienza del loro valore nel mondo; essi erano “padroni”, dovevano mostrare ai “ladruncoli” come sa e può lavorare l’uomo “vero”, il “padrone”. Ma poco dopo, questo orgoglio cedette il posto a qualcos’altro, a un qualcosa di per nulla chiaro al kulàk stesso. Si presenta al responsabile dei lavori e gli racconta solerte di esser stato condannato per aver nascosto il pane e consigliato ai vicini di fare lo stesso. Durante l’interrogatorio, dopo l’arresto, non lo aveva ammesso; ora invece lo ammette: lo aveva nascosto, il pane! E racconta con dovizia di dettagli dove e quanto ne aveva nascosto, quanto e dove ne avevano nascosto i suoi compaesani.

Erano questi i soggetti “di più difficile rieducazione”. Nell’opporsi alle legittime esigenze dello Stato, essi si spingevano fino a una cupa crudeltà. Uno di loro aveva nascosto 450 pud di grano e lasciato morire di fame sua moglie e due figli, lasciandosi deperire fin quasi a morirne. Ma anche in questi semiuomini, idolatri della proprietà privata, la verità del lavoro collettivo indeboliva l’individualismo zoologico. Ecco come uno di questi “padroni”, proprietario di una fattoria, raccontava del proprio rinsavimento:

Ho vissuto in anni, quando l’autorità ti picchiava sul muso ora per una tua mancanza ora per divertirsi e per mostrare la propria forza. Nell’anno 1902 il governatore Obolenskij ha fatto bastonare un abitante su cinque del nostro villaggio, e fra quei cinque c’ero anch’io.

Anche nel 1906 ci sono cascato per bene e restai in prigione per quattro mesi. Arrivò un pensierino: visto che tutti fanno cosa gli pare, anch’io vivrò come posso! Durante la guerra civile io avevo una fattoria, tre paia di buoi, due paia erano miei, un paio di mio fratello, ma egli se ne andò tra i partigiani e sparì. C’erano i cavalli, tre erano “austriaci” che parlavano la nostra stessa lingua, catturati in Galizia. I Bianchi ci assalirono, macellarono i buoi, portarono via i cavalli. Arrivarono le Guardie Rosse, oltre il pane non presero niente, ma di pane da me ce n’era in abbondanza. Poi, di nuovo i Bianchi, e dietro di loro, i Tedeschi. Ma, a dire il vero, i Tedeschi saccheggiarono tutta la mia azienda, tanto che io volevo impiccarmi. Finì la guerra, mi rimisi a lavoro, e per quattro anni mi abituai a vivere non male. Facevo il revisore nel soviet, non mi tiravo indietro di fronte al lavoro collettivo, c’era la cooperativa, eppure … Cominciarono i colcos. Nel 1929 risultò che io ero un avversario del potere sovietico, un nemico. Mi arrestarono. All’interrogatorio mi chiamavano cittadino qui, cittadino là. Macchè, penso! Mi leccano il culo per tirarmi dalla loro. Un guaglione mi colpì sul collo, il suo superiore lo mise tre giorni agli arresti. Può darsi che lo facesse soltanto per politica. Allora, io penso dentro di me: picchiami, ma la mia azienda non la toccare! Sotto lo zar l’azienda non la toccavano. Sì, ed ecco che ottenni la tutela dell’azienda. Ecco che lavoro non peggio degli altri e ricevetti due premi e promisero la riduzione del periodo per la formazione dei guaglioni al lavoro di carpentiere. Di insegnare io ero capace. Allora, qui, ovviamente vedo che se io avevo la mia fattoria, a cosa mi serviva questo canale? E capisco che se tutti i proprietari la pensassero in questo modo, finiremo agli ordini del Tedesco, se non di qualche altro straniero. Ecco che mi trasferii qui, a Mosca, per costruire il canale. Il lavoro di carpentiere è più tranquillo e non tornerò alla terra, non sono un lavoratore del colcos, e non trovi la felicità in qualche sua dessiatina; meglio frugarsi il naso con le dita.”

Cominciarono i motivi della trasformazione, talvolta molto simili all’aneddoto comico; l’uomo rotondetto, arrossato, allegramente dice:

A casa, avevo mal di pancia, diventai troppo schizzinoso nel mangiare, e l’intestino divenne obeso, non ci nutriremo di niente, – tutto indietro! Per un anno e mezzo mi nutrivo con un latte e pappa, ma anche quello era bruciore nell’intestino, come se mangiassi dei vetri. Il dolore aumentò, della mia vita non importava a nessuno se non a me stesso, francamente – divento matto ed ecco tutto! A causa del male, feci anche molte birichinate, picchiai il corrispondente rurale, ma questi mi denunciò, come se fossi io un ragazzino che aveva incendiato il fieno del colcos. Effettivamente, quel fieno lo incendiarono, non soltanto quello; chi io avessi corrotto non si sa, ma pensarono lo stesso a me. Ecco, questo significa la prigione, il campo, e poi mi spedirono al Canale. Ma io semplicemente morivo da tanto mi faceva male la pancia. Tuttavia, al Canale iniziai a mangiare, francamente, male! E vedo che tutti sono migliori di me, ma altri anche delle complete nullità! Così anche lavorare diventò in conformità alla salute. Diventai appassionato del lavoro. Nel campo io mi accorsi anche che a chi voleva, gli venivano spiegati tutti i fini dell’opera. Finii per studiare, avevo a malapena un’istruzione elementare, leggevo il giornale con difficoltà, su dieci parole ne capivo la metà e, a volte, anche in modo sbagliato. Adesso leggo senza intoppi, come se mi avessero messo altri occhi. Avevo ricevuto la comprensione della vita. Giovane, passeggiavo un poco con Machnej, là pure buffoneggiavano che occorreva rifare la vita in un’altra maniera. Che dicessero quello che volevano, ma all’opera, l’alcolismo è una rapina. Qui i dirigenti sono di un altro orientamento, sono vestiti come ufficiali e vivono come monaci: di ubriachi tra loro non se ne vedono, con le ragazze non hanno a che fare, e le ragazze e le donnine qui sono tali che le guardi e perfino supplichi: portami, mio Dio, davanti una tazza di siju! Sì. Qui ti trasformano in un altro duramente, seriamente, e perfino l’anima ne gioisce: conoscono le persone, quanto costa un centinaio di creste! E tutti paiono giovani! Qualunque lavoro svolgessero, si dimenticano di se stessi, – che meraviglia!”.

Di questi racconti è possibile ascoltarne a centinaia. Tutti parlano come, perfino alcuni proprietari incalliti, lavorando alla via d’acqua Canale Mar Bianco-Mar Baltico, risultarono capaci “di dimenticare se stessi” e di capire “i fini statali” del lavoro, la sua pubblica utilità economica, il suo significato per la difesa contro il nemico estero, sebbene a questa comprensione arrivasse, come si è visto, la psiche “dei proprietari”.

Istintivi confronti dei proprietari, trasgressori “della sacra verità della proprietà”, giunsero alla comprensione del senso del lavoro, perché esso apriva davanti a loro tutte le vie per il risanamento e lo sviluppo delle loro capacità, dava loro una qualifica di lavoro, ricuperava le verità perse dei cittadini dell’Unione dei socialisti sovietici.

Essi capirono di più dei “padroni”, capirono che prendevano parte all’opera di creazione di questa costruzione che fornisce alle persone la libertà della crescita mentale.

Ed ecco nel risultato di venti mesi di lavoro, il paese ha ricevuto qualche migliaia di qualificati costruttori, che attraversarono una scuola di severa disciplina, si salvarono dal corrotto avvelenamento borghese, dalla malattia di cui soffrono milioni di persone e che può essere sempre sconfitta soltanto con imprese “di onore e gloria”, col lavoro “di valore ed eroismo”, rispettabile e dignitoso, della costruzione prima nel mondo, della società sovietica.

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Dicono che in alcune fabbriche e stabilimenti ci fosse posto per caso per il volgare rapporto borghese-americano dei “presenti” operai con gli ex-socialmente pericolosi. I “presenti” guardano ai militi del Canale come persone di “razza inferiore”, come la totalità degli Americani considera i negri. Se questo è così, è ancora più vergognoso per gli operai dell’Unione dei socialisti sovietici, e questo non può essere spiegato altrimenti, se non con l’idiota boria borghese. La boria è una brutta malattia e richiede una cura molto seria. Dicono che in alcuni casi i fattori di questa boria possono spiegarsi in modo molto semplice: arriva nello stabilimento o nella fabbrica un gruppo di lavoratori d’assalto del Canale perfettamente addestrati e, avendo osservato al lavoro non solo i proprietari, ma anche i recenti reparti di campagna, dicono loro:

Voi, compagni, lavorate male, a voi manca la disciplina e gareggiate nella “presentazione” e non nella fila del successo del lavoro!”

Questo è molto vicino alla verità. Questo, è sottinteso, può suscitare offesa e perfino esasperazione nelle persone che lavorano male, di fronte alle persone già capaci e abituate a lavorare bene, e che sono “insegnanti involontari”. Questa non è solo boria, ma può essere il riflesso di qualche differenza psicologica molto sostanziale tra i devoti discendenti dei “mugìk agricoli” e proletari, i quali a causa dell’irriverente rapporto con le “aziende” e i “padroni”, subirono molto.

Ai devoti aristocratici delle antiche famiglie borghesi occorre sapere che, perfino ai tempi dell’incosciente potere autocratico-zarista, attaccavano un uomo due volte in casi molto rari. Occorre sapere e ricordare che agli ex-socialmente pericolosi fu reso il diritto di nazionalità e la concessione di libertà di lavoro non per compassione di loro, non per amore di Dio, ma come naturale e onorevole ricompensa per i loro faticosi meriti, per la loro onesta ed eroica partecipazione nell’opera di enorme importanza pubblica, nell’opera necessaria a tutti e, in quel numero, anche per quelli che erano come seppelliti, ma nuovi nell’opera e, nella mensa della fabbrica, “presenti” operai ancora non cotti, i quali scoprono nel rapporto con i militi d’assalto del Canale, l’idiozia dell’aristocratismo.

La boria è una brutta malattia e richiede una cura seria. E sebbene il malato non sia obbligato a sapere come si senta il dottore, tuttavia è molto utile chiedere all’uomo: perché è diventato dottore? E in mezzo ai militi del Canale, sono parecchi quelli che compresero molto bene le cause delle malattie sociali e capirono come occorresse curarle.

1 Direzione Politica di Stato (Polizia politica)

2 Adatt. It. del russo kopejka, moneta russa coniata nel 1535. Oggi è la moneta divisionale pari alla centesima parte del rublo.